È il racconto di Rosalia Basile, ex moglie del falso pentito Vincenzo Scarantino in aula a Palermo nel giudizio contro tre funzionari di polizia accusati di calunnia aggravata. "Approfittavano della sua debolezza psicologica dicendogli che io lo tradivo, gli mettevano i vermi nella zuppa, minacciarono di inoculargli il virus dell’Aids. Ero certa che lo avrebbero ucciso" ha detto la donna
“Per costringerlo a parlare e a mentire lo picchiavano, approfittavano della sua debolezza psicologica dicendogli che io lo tradivo, gli mettevano i vermi nella zuppa, minacciarono di inoculargli il virus dell’Aids. Ero certa che lo avrebbero ucciso”. È il racconto di Rosalia Basile, ex moglie del falso pentito Vincenzo Scarantino.
La teste sta deponendo al processo a Palermo sul depistaggio delle indagini sulla strage di via D’Amelio costata la vita al giudice Borsellino. Imputati di calunnia aggravata i tre funzionari di polizia che avrebbero creato a tavolino falsi pentiti, come Scarantino, costretti a raccontare una verità di comodo sull’attentato. Per l’accusa i poliziotti, Fabrizio Mattei, Mario Bo, e Michele Ribaudo ,avrebbero confezionato una verità di comodo sulla fase preparatoria dell’attentato e costretto appunto Scarantino a fare nomi e cognomi di persone innocenti. Un piano costato la condanna all’ergastolo a sette innocenti scagionati, una volta smascherate le menzogne, dal processo di revisione che si è celebrato e concluso a Catania il 13 luglio 2017. La svolta nell’inchiesta della Procura di Caltanissetta, che dopo anni di inchieste e grazie alle rivelazioni del pentito Gaspare Spatuzza, è riuscita ad individuare i veri artefici della fase preparatoria della strage, era arrivata a ridosso dal deposito della sentenza emessa nel corso dell’ultimo processo per l’eccidio di Via D’Amelio e le cui motivazioni sono state depositate il 1 luglio dell’anno scorso.
La donna ha puntato il dito contro l’ex capo della Mobile Arnaldo La Barbera, nel frattempo morto, descrivendolo come la mente del piano ordito per depistare le indagini attraverso la creazione di collaboratori di giustizia fasulli, costretti a mentire con minacce fisiche e psicologiche. “Dopo la detenzione a Pianosa – ha raccontato la donna – improvvisamente ammise il furto della 126 usata come autobomba per la strage. Mi disse ‘devo farlo anche se sono innocente altrimenti mi ammazzano'”.
La teste ha poi proseguito: “Cercai di contattare la signora Borsellino per dirle che mio marito veniva picchiato per farlo pentire e che era innocente. Mi rivolsi anche al Papa e al capo dello Stato. Citofonai a casa Borsellino scese un uomo che mi disse che la signora non se la sentiva di parlarmi visto il lutto sofferto“. Nel suo racconto Basile ha aggiunto che trovò “a casa dei foglietti (poi consegnati alla corte, ndr) del mio ex marito con i numeri dei cellulari e dell’ufficio dei pm, all’epoca in servizio a Caltanissetta, Nino Di Matteo, Anna Palma, Carmelo Petralia e Gianni Tinebra. A volte si chiudeva in stanza per parlare con loro al telefono”. La donna, citata a deporre al processo in corso a Caltanissetta a carico di tre funzionari di polizia non ha mai rivelato prima dei rapporti telefonici tra il marito e i magistrati. Su quest’ultima dichiarazione il pm Di Matteo dice: “Spontaneamente, io per primo, all’udienza del processo Borsellino Quater, smentendo Scarantino, che aveva detto che non mi aveva mai telefonato, ho raccontato che qualcuno gli aveva dato a mia insaputa il mio numero di cellulare perché una volta mi aveva telefonato e un’altra mi aveva lasciato otto messaggi in segreteria telefonica. “Non c’è nessuna novità – ha aggiunto Di Matteo – come si evince rileggendo le pagine 39 e 40 della trascrizione della mia deposizione in udienza nel Borsellino quater”.