di Claudia De Martino*
Dei molti Paesi arabi che nel 2011 si rivoltarono con mobilitazioni di massa contro i propri tiranni, il caso dell’Egitto è uno dei più drammatici. Si potrebbe obiettare che la vicina Libia è in preda a una guerra civile, e che la Siria sta ancora vivendo una guerra regionale che ha prodotto oltre 400mila morti e cinque milioni di rifugiati, ma l’Egitto con i suoi 65mila prigionieri politici rimane uno dei casi più evidenti di violazioni sistematiche dei diritti umani. E anche uno dei più tollerati dalla comunità internazionale, dato il ruolo strategico di contenimento di rifugiati e jihadisti che l’autocrazia del presidente al-Sisi svolge sul fianco sud del Mediterraneo.
Non a caso i governi occidentali si limitano a ricordare nei loro comunicati ufficiali la “difficile situazione” in cui si trova l’Egitto, ribadendo però tanto a livello di Commissione europea che di Stati membri la ferma volontà di “portare avanti un dialogo costruttivo con l’Egitto in vista della stabilità, di riforme economiche e sociali e dello sviluppo, nell’ambito del dialogo instaurato all’interno della partnership congiunta” (portavoce della Commissione Ue sull’Egitto, maggio 2018).
Il presidente francese Emmanuel Macron ha anche recentemente assicurato un nuovo prestito bilaterale di un miliardo di euro tramite l’Agenzia francese per lo sviluppo, per sostenere le non meglio definite “riforme” del presidente al-Sisi, mentre il governo italiano – dimenticato l’irrisolto caso Regeni – dopo appena 18 mesi di formale protesta tra il 2016 e il 2017 ha ripristinato le relazioni diplomatiche senza contropartita politica (ma con buon auspicio per gli investimenti delle oltre 130 aziende italiane impegnate nel Paese e per il giacimento di gas dell’Eni a Zohr, in acque territoriali egiziane).
In uno scenario di normalizzazione crescente delle relazioni con l’Egitto, il cui violento golpe militare del luglio 2013 sembra ormai dimenticato tanto dalle cancellerie che dalle opinioni pubbliche straniere, a pagare il prezzo della repressione sono i cittadini egiziani, compresi i circa 350mila espatriati, la cui voce è spesso messa a tacere o boicottata da un’immensa rete di spionaggio dispiegata dai servizi segreti egiziani in tutto il mondo, ma in particolare in Italia. Pagina dolente, questa, che ricorda la “tolleranza” delle autorità italiane verso molti assassini politici perpetrati sul nostro territorio da parte di governi stranieri: in particolare il “Lodo Moro”, che garantiva sostanziale impunità sia ai palestinesi che agli israeliani per “regolamenti di conti” avvenuti in Italia che non toccassero cittadini italiani, e gli omicidi mirati dei dissidenti iraniani, avvenuti prima e dopo la Rivoluzione islamica.
A sottolineare la paura che accompagna i dissidenti egiziani nel nostro Paese sono le testimonianze raccolte in un bel libro di Azzurra Meringolo Scarfoglio, intitolato Fuga dall’Egitto. Inchiesta sulla diaspora del dopo golpe, che ha il pregio di gettare luce sul fenomeno della diaspora egiziana post-2013, ovvero su tutti quegli attivisti che, traditi dai militari e minacciati di repressione e tortura in Egitto, hanno preferito la via dell’esilio a una lunga e dolorosa prigionia.
L’inchiesta giornalistica della Meringolo rintraccia molti attivisti egiziani fuggiti dal Paese all’indomani del golpe del 2013 o negli anni successivi alle “riforme” avviate dal presidente al-Sisi, tra le quali spicca la stretta operata sui media e sui finanziamenti stranieri alle Ong, che aveva di fatto l’obiettivo di mettere a tacere molte organizzazioni attive nella difesa dei diritti umani. Azzurra Meringolo Scarfoglio traccia un quadro complesso della diaspora egiziana divisa tra moltissimi Paesi, ma soprattutto ripartita in due tronconi principali a seconda delle affiliazioni politiche degli esuli egiziani: Stati Uniti e Italia per liberali e laici, Qatar e Turchia di preferenza per gli islamisti. Gli Usa figurano in effetti come la meta diasporica ideale tanto per gli uni che per gli altri, e risultano per gli esuli – almeno dalle interviste raccolte – come il rifugio più sicuro e meno soggetto alle interferenze politiche dei servizi di sicurezza egiziani.