Qualcuno ancora ricorda la #spazzacorrotti, etichetta appiccicata a una legge dalle tante buone intenzioni, che avrebbe dovuto – ministro Bonafede dixit – debellare il male italico della corruzione? Bene, le cronache degli ultimi giorni, con mazzette equanimemente distribuite a Roma e Trapani, restituiscono quell’hashtag altisonante alla sua naturale dimensione social. Nel migliore dei casi, una fake news. Nello scenario peggiore, quella legge si configurerebbe come un alibi prestato da “utili idioti” pentastellati per legittimare una liberalizzazione degli appalti in corso di approvazione. Il coming out del sottosegretario leghista alle infrastrutture Siri somiglia a una pistola fumante: basta con l’Autorità anticorruzione e con l’impiccio di regole e controlli, da considerarsi come una sorta di “malattia autoimmune”, giacché nella gestione degli appalti occorre soprattutto “buon senso”.
Certo, nel futuro Eden degli affidamenti diretti di lavori pubblici agli imprenditori amici, senza più soglie per i subappalti né progetti esecutivi, tutto potrà accadere. Ai dirigenti di partiti sempre più affamati di denari, visto il prosciugamento delle sovvenzioni statali – e tra loro di una Lega che egemonizza ormai la quasi totalità dei Comuni del nord – toccherà la responsabilità di vigilare affinché i loro amministratori non cedano alle sirene incantatrici della corruzione. Vi è il rischio, infatti, che il pedaggio in percentuale sugli appalti che in alcuni contesti si è soliti versare si trasformi nel pozzo senza fondo (dei bilanci pubblici) dal quale alcuni malintenzionati attingano per sovvenzionare a livello organizzativo e propagandistico i propri apparati. Che poi si tratti delle care vecchie bustarelle vintage, di contributi iscritti a bilancio o di moderne “tangenti pulite e fatturate” sotto forma di prestazioni professionali o consulenze fittizie, tanto in auge in questi ultimi anni, ben poco cambia nella sostanza.
Per questo possono preoccupare i trascorsi di un partito in ascesa vertiginosa nei sondaggi come la Lega che secondo sentenze passate in giudicato ha già dimostrato robuste competenze nella finanza politica creativa, vedi alla voce 49 milioni di euro di finanziamenti pubblici da restituire. Secondo un’ipotesi avanzata dagli inquirenti, una partita di giro contabile tra associazioni private fiancheggiatrici potrebbe aver permesso di centrifugare quei fondi in una specie di “lavatrice” per ripulirli in modo non tracciabile. Anche grazie a simili esperienze può svilupparsi il sofisticato know-how della corruzione italiana, attingendo al quale qualsiasi partito prenda le redini del potere potrà forse monetizzare la gratitudine dei tanti comitati d’affari che si apprestano ad allungare le mani su un sistema “liberalizzato” di contratti pubblici. Prove tecniche di una corruzione prossima ventura, una corruzione 3.0, pressoché legalizzata, foraggiata da appalti pubblici sciolti da “lacci e lacciuoli” – un banchetto sontuoso da circa 200 miliardi di euro l’anno, è il caso di ricordarlo.
La cronaca quotidiana, col suo stillicidio di scandali, può aiutarci a comprendere che forse non è esagerato proiettare in una dimensione criminogena il decreto “sbloccacantieri” – cosa vi sia da sbloccare non è poi tanto evidente, visto che tra il 2017 e il 2018 il numero di procedure è cresciuto del 28%, quello degli importi del 25,3%. Anche la pratica della corruzione appare in ottima salute, si affina nelle tecniche per modellarsi plasticamente ai vari contesti politici e amministrativi. Quanto emerge grazie alle inchieste giudiziarie peraltro ne è solo frammento infinitesimale, venuto alla luce per un qualche inciampo dei protagonisti: chissà quali tesori nascosti, quanta ricchezza di forme e più efficienti metodologie corruttive rimane in un cono d’ombra.
A Roma alcuni politici e intermediari avrebbero cercato di sfruttare “una congiunzione astrale che è come quando passa la cometa di Halley” tra la presenza pentastellata a livello di governo nazionale e cittadino per incamerare profitti facili dalle immarcescibili speculazioni urbanistiche: l’intramontabile “A fra’, che te serve?” eletto a metodo di governo. Una ben triste smentita dell’aspirazione a una palingenesi antropologica prospettata dagli eletti a 5 stelle. Vale a poco scandire “onestà onestà” in piazza quando si è privi di meccanismi adeguati di selezione della classe dirigente e di governo, delegata a pochi click su una tastiera in piattaforme dagli algoritmi secretati, per tacere degli strumenti di controllo interno, più inclini a punire la dissidenza che la performance imbarazzante di taluni eletti o nominati.
Eppure il Movimento 5 Stelle, proprio in virtù della sua repentina crescita esponenziale di voti, appare particolarmente esposto alle “scalate” di arrampicatori a caccia di facili prebende. Come prima, più di prima intermediari e faccendieri scorrazzano indisturbati nel sottobosco affaristico romano, dove l’attività pubblica diventa “il campo di gioco calpestato“ nel quale una politica in fondo stracciona – “i politici ce li abbiamo”, proclama l’avvocato-procuratore del politico potente – si trova al libro paga e quindi a guinzaglio di interessi forti, come quelli del palazzinaro di turno. Del resto, scrive il giudice nell’ordinanza romana, il politico “si avvale di tutta la rete di relazioni in modo da potere sollecitare l’intervento di altri pubblici ufficiali (…) secondo la finalità desiderata dal privato”.
L’organizzazione di una rete di corrotti e corruttori dislocata in Sicilia aventi finalità analoghe si fonda invece sull’utilizzo di una preesistente infrastruttura di relazioni frutto dell’appartenenza massonica. Il “gruppo occulto che si annidava all’interno della loggia” descritto dagli inquirenti a Trapani beneficia dell’ambiguità caratteristica di ogni struttura associativa massonica, che presta il fianco a deviazioni criminogene. A quale titolo componenti della classe dirigente, titolari di poteri e ruoli pubblici e privati, nonché portatori di competenze e risorse professionali differenziate ma complementari, dovrebbero incontrarsi regolarmente e ripetutamente in sedi riparate, potendo contare sulla riservatezza della loro affiliazione? In una specie di manuale per l’affiliazione alla massoneria del Grande Oriente, la scontata ammissione: “Alcuni pensano che entrando in Massoneria si avranno relazioni influenti, nuovi amici, possibilità di carriera sul piano professionale e lavorativo”.
Ne siano consapevoli o meno i Gran Maestri che dirigono il traffico – nel caso trapanese non vi è alcuna evidenza di coinvolgimento – si tratta di un terreno fertile per valorizzare quella rete riparata di contatti e di rapporti fiduciari con interlocutori disponibili, convertendola in opportunità di allacciare scambi garantiti dalla reciprocità allargata e spesso solidale degli affiliati. Che siano affari legali o informali, illeciti o criminali, che siano favori, bandi d’appalto, pensioni d’invalidità, finanziamenti pubblici, nomine, assunzioni, voti o tangenti, come accadeva a Trapani, la praticabilità dipende solo dalla disponibilità dei fratelli massoni. Fratelli, anche loro. A ben pensarci un analogo “A frà, che te serve?” – sia pure con accento differente – risuona anche nella vicenda siciliana. Lo si potrebbe proporre come motto dell’Italietta corrotta e declinante.