Cronaca

Traforo Monte Bianco, vent’anni fa l’incendio che causò 39 vittime. Da allora nessuna seria riflessione sui trasporti al confine con la Francia

Verso le 10.30 del 24 marzo di 20 anni fa il camionista belga Gilbert Degrave imboccò il tunnel del Monte Bianco dal versante francese: sul suo camion frigorifero trasportava un carico di margarina e farina. Alcuni testimoni riferirono in seguito di aver visto il Tir entrare nel tunnel già fumante. Alle 10.48, il mezzo prese improvvisamente fuoco come una torcia e costrinse l’autista a fermarsi dentro alla galleria, creando un ingorgo.

Pochi minuti dopo fu dato l’allarme, che fece chiudere gli ingressi del tunnel sia sul versante francese che su quello italiano. Anche i soccorsi partirono immediatamente, ma non riuscirono a impedire la morte di 39 persone, tutti autisti di diverse nazionalità europee, vittime delle fiamme, dell’alta temperatura che si scatenò immediatamente o della cortina di fumo acre che si propagò nella galleria e che i ventilatori non riuscirono a disperdere. Le fiamme furono spente solo dopo oltre due giorni di intervento dei vigili del fuoco italiani e francesi e degli addetti delle due società che gestivano il traforo.

Dopo questa terribile disgrazia, furono messi in discussione i meccanismi di videosorveglianza e di sicurezza della struttura, anche se nella circostanze dell’incidente la fatalità aveva giocato una parte importante. Gli 11 chilometri del tunnel che collega Courmayeur a Chamonix restarono chiusi per tre anni, e in seguito le strutture operative delle due aziende vennero accorpate e messe sotto il controllo e la direzione di una apposita commissione intergovernativa italo-francese.

Questi i fatti. In occasione del ventennale della tragedia è però lecito farsi una domanda: perché, nonostante gli importanti lavori di ripristino della galleria (la volta era molto deteriorata e doveva essere rifatta), i lavori durarono ben tre anni mentre gli esperti sostenevano che sarebbe bastato un anno e mezzo per ripristinare e riaprire il tunnel? Il motivo sta nelle inaspettate lungaggini per l’approvazione del progetto, che ritardò l’avvio dei lavori. I francesi, infatti, prima di dare il via ai lavori volevano discutere con l’Italia non solo il progetto di ripristino del traforo del Bianco, ma anche quale strategia adottare riguardo a tutti gli altri collegamenti transalpini.

In quegli anni, infatti, per tutelare l’arco alpino dall’inquinamento provocato dal traffico su gomma, la Svizzera aveva varato una tassa sul trasporto pesante e l’Austria aveva contingentato il numero di autorizzazioni al transito dei mezzi pesanti: decisioni prese nell’ottica di scoraggiare il traffico su gomma e potenziare il trasporto delle merci via ferro. La Francia mise il problema sul tavolo spiazzando il nostro paese, allora privo di una strategia per la sostenibilità dei trasporti. Ed è in questo quadro che i francesi posero con forza anche la questione del potenziamento ferroviario della linea Torino-Lione, allo scopo di ridurre il traffico stradale anche nel parallelo tunnel del Frejus (che nel 2005 fu teatro di un grave incidente in cui morirono due camionisti slovacchi, e restò chiuso due mesi).

Fino a quando non si fosse individuata una strategia comune sullo sviluppo del trasporto ferroviario, la tutela dell’ambiente, la riduzione dei tempi di percorrenza e la sicurezza stradale e ferroviaria, la commissione intergovernativa italo-francese era quindi decisa a non far partire i lavori di ripristino del traforo del Bianco. Dopo un lungo braccio di ferro, l’impasse fu superata con uno stratagemma: i tecnici italiani si fecero autorizzare un intervento marginale sul versante valdostano, e da lì diedero il via a un vero e proprio cantiere per “sbloccare” il tunnel, mettendo la commissione e il governo francese davanti al fatto compiuto.

La decisione sortì un effetto positivo nell’immediato, dando una risposta ai disagi dei valligiani dovuti alla chiusura del traforo, ma ebbe anche una ricaduta i cui effetti si vedono ancora oggi: rinviare sine die la discussione sull’assetto complessivo del sistema dei trasporti – sia su gomma che su ferro – al confine alpino tra Francia e Italia. Vent’anni dopo, siamo ancora allo stesso punto.