Ho avuto occasione di assistere, la settimana scorsa, alle udienze finali del processo intentato, nei pressi di Istanbul, contro venti avvocati, membri e militanti, uomini e donne, dell’associazione dei giuristi progressisti (CHD). Come prevedibile, si sono avute, mercoledì, una serie di pesanti condanne, fino a diciotto anni di carcere. Il “delitto”? Aver preso sul serio la professione legale, difendendo membri di organizzazioni ritenute illegali dal regime, minatori vittime di disastri sul lavoro, coloro che si opponevano al progetto di devastazione urbanistica denominato Gezi Park e molti altri soggetti sociali all’opposizione. Mentre in Italia abbiamo un premier che, sia pure per meri motivi propagandistici, si è autodefinito l’avvocato del popolo, in Turchia chi l’avvocato del popolo lo fa davvero è destinato a passare molti anni in carcere, preferibilmente in isolamento.

Il processo è stato del resto una vera e propria parodia dello Stato di diritto. Il giudice che, al termine della prima udienza del processo, svoltasi a settembre, aveva osato scarcerare gli imputati, è stato immediatamente rimosso dall’incarico e sostituito da altro ritenuto, a ragione, più affidabile per il regime. Le prove dell’accusa sono testimoni rigorosamente anonimi o altri che la difesa non ha potuto nemmeno controinterrogare, ovvero documenti dall’origine del tutto incerta e per nulla verificabile. Il processo ha violato apertamente l’art. 16 dei Principi delle Nazioni Unite sul ruolo degli avvocati, che vieta le intimidazioni, persecuzioni e altri ostacoli volte a rendere più difficile l’esercizio della professione, e l’art. 18 degli stessi Principi, che vieta di identificare gli avvocati con i loro clienti. In alcuni momenti il presidente del tribunale è giunto al punto di escludere senza motivo tutti gli avvocati dall’aula. Insomma violazioni a bizzeffe di principi elementari dello Stato di diritto come quelli di indipendenza della magistratura, processo giusto, salvaguardia del contraddittorio, diritto alla difesa, come sottolineato nella Dichiarazione emessa alla fine del processo da varie organizzazioni di giuristi europee e internazionali.

Probabilmente tanta goffa brutalità repressiva è un preciso sintomo di debolezza del regime, al momento ancora raggruppato attorno ad Erdogan, che consta di vari pezzi tra i quali forze politiche apertamente di destra estrema, come il MHP, e il famigerato “Stato profondo” che comprende la maggior parte dei vertici di polizia, Forze armate e servizi segreti e raccoglie una tradizione di repressione che vanta vari millenni, risalendo agli ottomani e prima di loro ai bizantini. Debolezza beninteso sul piano interno, che sarà probabilmente messa in evidenza anche dall’esito delle prossime elezioni locali in programma per domenica 31 marzo. Mentre invece sul piano internazionale Erdogan ha dimostrato di essere un giocatore abile e spregiudicato. Consapevole del crollo verticale del potere statunitense nel mondo e irritato per ritenere, probabilmente a ragione, che la CIA fosse dietro l’oscuro tentativo di golpe contro di lui naufragato miseramente due anni e mezzo fa, Erdogan si è riavvicinato a Russia e Cina e intende giocare in proprio le sue carte, che non sono poche o di scarso valore anche se la crisi economica morde il Paese.

Va detto peraltro che è agevolato dalla politica codarda, ipocrita e imbelle dell’Unione europea, la quale, mentre senza alcuna ragione che non sia quella di compiacere Trump commina sanzioni genocide contro il Venezuela, si guarda bene dal prendere posizioni coerenti e seguite da politiche efficaci (non necessariamente sanzioni) nei confronti di Erdogan, blandito in tutti i modi anche perché si fa carico della patata calda dei rifugiati in arrivo dalla Siria come effetto delle stesse disastrose politiche europee.

Occorre invece che l’Unione europea esiga con forza da Erdogan il rispetto degli elementari principi dello Stato di diritto e la liberazione dei prigionieri politici che sono oramai varie migliaia, compresi esponenti di categorie professionali come avvocati, magistrati, medici, intellettuali, accademici, giornalisti e sindacalisti, come pure la ripresa del dialogo con il popolo kurdo per giungere alla pace e alla necessaria ed urgente rifondazione democratica del Paese.

Del resto anche Erdogan deve fare i conti con i profondi mutamenti che stanno avvenendo nella regione, dalla sconfitta dell’Isis (costata la vita di undicimila combattenti kurdi e internazionali fra i quali il nostro Lorenzo Orsetti), su cui pure aveva puntato per tutta una fase e non solo per trarre profitti dal contrabbando di petrolio, all’avvio della Siria verso una riconciliazione che vedrà con ogni probabilità la necessità di rispettare le istanze dei Kurdi, alla ripresa spasdomica delle provocazioni di Trump, come quella sul Golan, con le quali si illude di poter recuperare un ruolo oramai perso per sempre, appoggiando il suo compare Netanyahu in forte difficoltà per le note vicende di corruzione.

Insomma, se vuole durare, Erdogan deve cambiare registro. Se solo l’Europa non fosse quell’ammasso informe e molliccio che invece purtroppo è, si potrebbero ottenere importanti obiettivi, a partire dalla liberazione dei prigionieri politici.

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