L’ingegneria ambientale fu introdotta nell’università italiana durante gli anni 80 del secolo scorso. Dopo un rodaggio di una decina d’anni sotto varie etichette, partì ufficialmente nel 1989, 30 anni fa. Incontrai allora allievi entusiasti e curiosi, spesso ispirati da una profonda coscienza ecologica. Alla prima lezione erano un po’ sorpresi dalla premessa: “Ci sono tre modi per affrontare i problemi dell’ingegneria ambientale, non troppo simili tra loro”. Qualcuno mi squadrava perplesso, ma la curiosità aveva comunque la meglio.
“Molti pensano che la missione dell’ingegnere ambientale sia mitigare i danni che hanno prodotto altri ingegneri: depurare, bonificare e risanare; difendere gli abitati in riva ai fiumi elevando muraglioni inviolabili; rispondere a qualunque domanda d’acqua da parte delle popolazioni, degli industriali e dei coltivatori”. Era la missione che molti ci assegnavano e parecchi ragazzi annuivano convinti. “Altri pensano che la missione dell’ingegnere ambientale sia evitare, per quanto possibile, di inquinare e abusare del territorio, di stravolgere il paesaggio, di piegare la natura a configurazioni insostenibili. E saper usare perciò le tecnologie migliori per progettare azioni dell’uomo capaci di realizzarsi in equilibrio e armonia con il territorio. Per questo, bisogna conoscere bene i processi che governano gli ecosistemi e l’ambiente, naturale e antropico”. Non nascondevo però che “c’è chi pensa che il nostro ruolo sia soprattutto quello di consulente esperto, perché nel nostro Paese la soluzione ottimale per chi inquina o costruisce in mezzo al torrente è arruolare un buon avvocato e un bravo perito”.
C’era sempre una ragazza sveglia – l’ingegneria ambientale degli albori attirava le giovani più di altre specialità – che mormorava: “La seconda che ha detto, professore”. Ero commosso, perché aveva capito lo spirito con cui avevo affrontato la sfida. Allora, in Italia l’opzione più popolare era la terza.
L’Accademia delle Scienze degli Stati Uniti ha pubblicato pochi giorni fa un interessante rapporto sull’ingegneria ambientale del XXI secolo, scaricabile gratuitamente dal sito. Il rapporto identifica cinque sfide urgenti che gli ingegneri ambientali dovranno affrontare nel XXI secolo:
1. Fornire cibo, acqua ed energia in modo sostenibile.
2. Contrastare i cambiamenti climatici e, nello stesso tempo, adattarsi ai relativi impatti.
3. Progettare un futuro senza inquinamenti e rifiuti.
4. Creare città efficienti, sane e resilienti.
5. Promuovere decisioni e azioni informate.
“Queste grandi sfide nascono dalla visione di un mondo futuro in cui esseri umani ed ecosistemi prosperino insieme”. Sebbene sia indubbiamente una visione ambiziosa, si possono – e si devono – compiere passi significativi in tutte queste sfide, sia a breve che a lungo termine. E il sapere è il fondamento del fare.
Se vogliamo prendere sul serio la questione, la conoscenza settoriale non basta più. Come ho scritto in Morte e Resurrezione delle Università, va superata la frammentazione disciplinare, attrezzo utile alle tenzoni accademiche orientate allo sviluppo delle carriere, ma del tutto irrilevante per il futuro dei giovani allievi. Dalle timide esperienze interdisciplinari bisogna salire di un gradino, adottando l’approccio multidisciplinare. E, quanto prima, avere il coraggio di sperimentare il metodo transdisciplinare.
C’è bisogno di connettere anziché separare, di integrare invece di ridurre, di riscoprire il valore dell’approccio qualitativo a fianco di quello quantitativo. Ed è una sfida da affrontare con la consapevolezza dei bisogni delle persone che sono state storicamente escluse dai processi decisionali sulle questioni ambientali, perché svantaggiati dal punto di vista socio-economico, perché membri di gruppi sotto-rappresentati o perché altrimenti emarginati.