Roma, 1 apr. (Adnkronos Salute) - L'assistenza domiciliare integrata (Adi) per gli over 65, secondo quanto previsto dal Pnrr, entro il 2026 dovrebbe passare dal 4% circa del 2023 ad almeno il 10% e raggiungere così l'obiettivo fondamentale per l'evoluzione dell'assistenza del Servizio sanitario nazionale della 'casa come primo luogo di cura'. A tracciare il quadro della situazione dell'Adi, per la prima volta in modo analitico e organico, è un report di Salutequità, elaborato dopo la consultazione di un panel di esperti. Il documento, che evidenzia la necessità di "superare il modello prestazionale", è stato presentato e discusso oggi in un evento a Roma, a cui hanno partecipato i maggiori esperti e stakeholder del settore, realizzato con il contributo non condizionato di Confindustria dispositivi medici.
La buona notizia è che nel 2023 la maggior parte delle Regioni risulta aver raggiunto l'incremento di numero di anziani assistiti a casa previsto dal Pnrr: 2, Umbria e Pa Trento, hanno raddoppiato l'obiettivo (oltre +200%); 4 invece non hanno raggiunto gli obiettivi ovvero Sicilia (1%), Campania (62%), Sardegna (77%) e Calabria (95%) (fonte Agenas - Agenzia nazionale per i servizi sanitari regionali, 2023), riporta una nota. Sulla presa in carico, rispettivamente degli over 65 e over 75, risultano più prossimi all'obiettivo 2026 Molise (7,26% e 11,97%), Abruzzo (5,80% e 9,57%), Basilicata (4,98% e 8,51%), Toscana (4,70% e 7,55%) e Umbria (4,62% e 7,40%), che hanno fatto registrare la più alta percentuale di anziani assistiti in Adi. Viceversa, sono più distanti, con tassi più bassi di anziani riceventi cure domiciliari, Calabria (1,67% e 2,87%), Sardegna (2,15% e 3,60%), Puglia (2,49% e 4,16%), Valle d'Aosta (3,23% e 5,02%) e Campania (3,25% e 5,64%) (Fonte Italia longeva, Associazione nazionale per l'invecchiamento e la longevità attiva).
Non mancano le criticità. L'intensità di cura, ovvero la quantità di assistenza, secondo il monitoraggio dei Livelli essenziali di assistenza (Lea) del ministero della Salute, nel 2022 era ancora troppo contenuta: 6 Regioni si collocavano al di sotto della soglia minima (Lombardia, Campania, Puglia, Calabria, Sicilia e Sardegna) per l'indicatore intensità di cura Cia 1, e per quello di intensità di cura Cia 2 e Cia 3 erano 4 le Regioni sotto la soglia minima (su Cia 2 Pa Trento, Friuli Venezia Giulia, Calabria e Sardegna, su Cia 3 Valle d'Aosta, Pa Bolzano e Calabria). Cia (Coefficiente di intensità assistenziale) - chiarisce Salutequità - indica la frequenza con cui il paziente ha ricevuto cure domiciliari nel periodo di cura e i livelli 1, 2 e 3 sono riferiti alla bassa, media e alta complessità assistenziale.
Nel 2023, a fronte di un aumento del numero di persone assistite in Adi, in 14 regioni (dati Italia Longeva) il grado di attenzione all'intensità è basso e corrisponde, per oltre il 50%, a livelli compresi tra Gdc (giornate di cura) 0, con data del primo e dell'ultimo accesso che coincidono, e Cia tra 0 e 0,13, cioè visite di carattere episodico. In Lombardia e Calabria il 50% e oltre dell'erogazione di cure domiciliari si concentra in un unico accesso.
Sulle ore di assistenza erogate a ciascun anziano over 65 non è andata meglio. Crea Sanità (Centro per la ricerca economica applicata in sanità dell'Università di Tor Vergata di Roma) osserva una diminuzione media annua del 2,6% tra il 2018 e il 2023, passando da 18 a circa 15,8 ore. L'offerta tra regioni è stata eterogenea: la Calabria nel 2023 ha erogato in media oltre 56 ore a fronte di un numero di assistiti simile alla Basilicata, dove le ore si sono fermate a circa 38; anche tra Lombardia ed Emilia Romagna, con una platea di over 65 simile, le ore di assistenza fornite sono state significativamente diverse, rispettivamente 10,9 e 15,0. Anche il passaggio dall'ospedale alle cure a domicilio risulta insufficiente come mostrano le anticipazioni del ministero della Salute sul rapporto Sdo (Schede di dimissione ospedaliera): nel 2023 solo l'1% delle dimissioni ordinarie e lo 0,3% di dimissioni protette hanno avuto attivazione di Adi.
Secondo Salutequità, si procede troppo lentamente sull'accreditamento e sul rispetto degli standard di qualità fissati dall'intesa Stato-Regioni del 2021, a partire dalla telemedicina da garantire nell'erogazione dell'Adi. Il recepimento delle Regioni è andato al rallentatore: ≤12 mesi per Lombardia, Liguria, Umbria, Sicilia, Abruzzo, Veneto, Basilicata, Molise e Calabria; entro 18 mesi per Emilia Romagna, Marche, Sardegna e Piemonte; le altre a partire dal 2023. A 4 anni dalla firma dell'intesa però anche le deliberazioni regionali faticano a decollare, ostacolate dalla mancanza di pareri di funzionalità e verifiche sul campo.
Secondo gli homecare provider che hanno partecipato ad una ricognizione di Salutequità, le procedure per l'accreditamento Adi risultano complesse e sono state completate in sole 3 Regioni (Lazio, Sicilia e Campania). Il quadro è reso ancor più complesso alla luce delle carenze di personale necessario per garantire le cure a casa. In particolare, preoccupa quella degli infermieri, che assicurano il 67% dell'Adi attuale: ad esempio quelli di famiglia e di comunità (IFeC) nel 2022 erano di appena 1.464 unità, secondo la rilevazione del ministero della Salute, appena il 7,6% del fabbisogno indicato nel Dm 77 di 19.314. Anche ipotizzando un incremento del 25% nel numero di IFeC nei 2 anni successivi, la carenza sarebbe oggi di almeno 14.485 infermieri. E ancora, dai dati Aidomus-It (studio realizzato dalla Federazione nazionale infermieri e dal Cersi, Centro di eccellenza per la ricerca e lo sviluppo dell'infermieristica, sull'assistenza infermieristica domiciliare in Italia), meno di 1 Asl su 2 (40%) ha un assistente sociale in organico, solo 1 Asl su 2 (53,2%) ha assunto almeno un operatore sociosanitario (Oss), valore che scende di oltre 10 punti nel Sud Italia (41,7%). E per i medici palliativisti solo il 22% (37) delle borse di specializzazione è stato assegnato a fronte dei 170 contratti banditi, e nei prossimi 5 anni ci saranno solo 195 specialisti in medicina e cure palliative.
"Il rischio che corriamo - afferma Tonino Aceti, presidente di Salutequità - è fare bella figura con l'Europa e al contrario una pessima figura con i pazienti, perché stiamo puntando su un modello prestazionale che bada più alla quantità delle persone che hanno un accesso sanitario a casa e non invece a una vera presa in carico al domicilio per chi ha bisogno di cure più intense e continuative. Proprio sugli aspetti qualitativi andrebbero assegnati obiettivi specifici alle Regioni. Non possiamo perdere la grande occasione del Pnrr per produrre vero valore nel servizio sanitario pubblico - avverte - Serve una capacità di monitoraggio e intervento centrale più incisiva per garantire un'attuazione uniforme e tempestiva dell'intesa Stato-Regioni su accreditamento Adi. E' necessario superare la carenza di professionisti specializzati e assicurare l'uso della tecnologia, con l'adozione di strumenti digitali realmente accessibili. Infine - conclude Aceti - dobbiamo già da ora attrezzarci per garantire un incremento strutturale del Fondo sanitario nazionale che vada oltre le risorse temporanee del Pnrr, per evitare il collasso delle cure domiciliari".