Sono disidratati, soffrono di dolori articolari e polmoniti. Quelle dei braccianti agricoli che lavorano nel nostro Paese sono le malattie da sfruttamento del lavoro nei campi. Quelle che si porta addosso chi piega la schiena guadagnando 12 euro per 8 ore di lavoro. Ci sono veri schiavi dietro i pomodori venduti a basso prezzo che arrivano sulle tavole in qualsiasi periodo dell’anno. Gli schiavi del ‘Belpaese’. Non certo solo africani. Sono anche in Puglia, dove Medici con l’Africa Cuamm, la prima ong di cooperazione sanitaria nel continente, dal 2015 ha avviato un progetto coordinato dall’anestesista Lucia Raho – con la collaborazione della Regione – per fornire servizi sanitari di base ai migranti che affollano le baraccopoli. “È stato il sindacalista camerunense Yvan Sagnet, cavaliere della Repubblica perché tra i protagonisti della lotta contro il caporalato esplosa a Nardò, in Puglia, nel 2011, a chiederci di iniziare un progetto in Puglia” racconta a ilfattoquotidiano.it Francesco Di Gennaro, medico specializzando in Salute Pubblica di Bari, che da anni lavora tra l’Italia e l’Africa con la ong. Con l’obiettivo di denunciare lo sfruttamento a cui sono sottoposti i lavoratori nei campi in Italia il medico e altri volontari della ong hanno firmato un articolo sul British Medical Journal. “Per risolvere la questione dei ghetti non basta la collaborazione delle istituzioni, dei cittadini, delle parrocchie e delle associazioni, su cui noi abbiamo sempre potuto contare, ora più che mai occorre non voltarsi dall’altra parte e assumersi le proprie responsabilità” spiega.

LE BARACCOPOLI Sono tra sessanta e settanta le baraccopoli in tutta Italia e, in queste condizioni, vivono circa 100mila persone. Senza protezione, nonostante la legge sull’Agromafia. Tant’è che negli ultimi sei anni sono oltre 1.500 i braccianti agricoli morti in Italia a causa del loro lavoro. A questi morti, ricordano i medici nell’articolo, si aggiungono le vittime del caporalato “che vivono in baraccopoli senza acqua, senza servizi igienici senza accesso ai servizi sanitari di base”. Impossibile arrivare a queste cifre solo attraverso i dati ufficiali, visto che quanto accade nei campi è soprattutto legato al lavoro sommerso. A tenere i conti di questo immenso dramma, negli anni, è stato l’Osservatorio indipendente di Bologna, curato da Carlo Soricelli.

A febbraio, nella tendopoli di San Ferdinando (nella zona industriale di Gioia Tauro) dove vivono quasi 2mila migranti stagionali venuti in Calabria per la raccolta delle arance, è scoppiato l’ennesimo incendio in cui ha perso la vita un senegalese di 28 anni, Al Ba Moussa. Si tratta dello stesso ghetto in cui a dicembre 2018 è morto Suruwa Jaithe, 18enne originario del Gambia, morto carbonizzato anche lui in un rogo. La baraccopoli è stata sgomberata agli inizi di marzo, ma era già pronta una vicina tendopoli, dove la notte del 21 marzo si è consumata l’ennesima tragedia. Questa volta a morire carbonizzato è stato Sylla Noumo, 32 anni, originario del Senegal. Nel frattempo, proprio in Calabria, diverse indagini hanno portato alla luce storie di sfruttamento, di caporali e di braccianti pagati meno di un euro all’ora.

LA DENUNCIA DEI VOLONTARI – “Per risolvere il problema – spiega Di Gennaro – occorre andare alla radice della questione che è lo sfruttamento del lavoro. Se queste persone fossero pagate per quanto previsto dal contratto nazionale del bracciante agricolo i ghetti non esisterebbero”. Insieme a Di Gennaro, hanno firmato l’articolo la collega Claudia Marotta, Giovanni Putoto, responsabile della ricerca e programmazione della ong, Davide Mosca, già direttore della Migration Health di Oim (International Organitation for Migration) e Paolo Parente dell’Università Cattolica del Sacro Cuore. “Salute, migrazione, economia, sviluppo sostenibile e giustizia sono tutti aspetti del nostro mondo tra loro interconnessi – scrivono gli autori dell’articolo – ed è un dovere per la comunità scientifica e clinica prendersi cura e dare voce a queste persone ‘mute’”. Eppure tutti possono fare la propria parte. Anche chi non va in missione, chi non è volontario, chi non è medico. Anche chi semplicemente acquista un prodotto piuttosto che un altro. “Un obiettivo che ci poniamo – sottolinea, infatti, Di Gennaro – è quello di far riflettere i consumatori, affinché facciano scelte consapevoli quando acquistano alimenti che vengono prodotti attraverso lo sfruttamento”.

CONTRO LO SFRUTTAMENTO – Quello che c’è dietro è un sistema complesso e un ruolo importante è giocato dalla grande distribuzione. Per attirare i propri clienti con offerte sempre più accattivanti, infatti, le grandi catene di supermercati riducono al minimo il prezzo pagato ai piccoli produttori, scaricando su di essi costi e rischi. E poi ci sono i limiti della legge sul caporalato, che non ne hanno ancora consentito una effettiva applicazione su tutto il territorio, la necessità di un approccio preventivo oltre che repressivo e regole del contratto agricolo con maglie più strette – come ha già avuto modo di spiegare a ilfattoquotidiano.it Elisa Bacciotti, direttrice delle campagne di Oxfam Italia – che non consentano ai datori di lavoro di fare i furbi e alcune modifiche legislative. “Noi crediamo che il testo sul caporalato sia stato un passo importante, ma non ancora sufficiente – continua il volontario della ong – ed è per questo che occorre promuovere una filiera etica di certificazione del lavoro, che è anche la battaglia di Sagnet”.

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