di Monica Di Sisto
Ventinove documenti, di cui una “cornice” politica che contiene dieci premesse per contratti commerciali e 19 intese istituzionali. L’incontro tra Governo italiano e cinese della settimana scorsa, se non fosse stato impreziosito dalla visita del presidente Xi e dalla stizza di Bruxelles a trazione franco-tedesca per l’autonoma iniziativa, rientrerebbe in un normale meccanismo di cooperazione tra l’Italia, Paese schiacciato sull’export e un suo potenziale mercato di sbocco. Quelli che sono stati definiti, erroneamente, accordi commerciali, non possono esserlo perché l’Italia ha conferito con il Trattato di Lisbona alla Commissione europea la propria competenza a trattare di scambi e investimenti, faccia a faccia o dentro l’Organizzazione mondiale del Commercio. Qualche problema formale in più, in questo senso, lo pone l’adesione italiana alla Belt and Road Initiative, perché non si tratta di una pianificazione concordata all’interno di un progetto di sviluppo del nostro Paese notificato all’Ue, ma del nostro aderire a sorpresa a una legittima (e lungimirante) pianificazione pluriennale di un altro Paese.
Non può non far pensare che la Commissione abbia fatto la voce grossa con l’Italia e non con la Germania che, come ha ricordato di recente anche l’ex ambasciatore italiano a Pechino, nel 2017 ha totalizzato 180 miliardi di euro di commercio bilaterale con la Cina, la metà di tutta l’Unione europea, seguita dall’Olanda con 96 miliardi, dal Regno Unito con 77, dalla Francia con 50, mentre l’interscambio Cina-Italia è di soli 43-44 miliardi. La Commissione, peraltro, sorvola da anni sul disavanzo commerciale europeo con la Cina di oltre 175 miliardi, di cui 20 miliardi tutti italiani. Peraltro, nel memorandum-cornice Cina-Italia si dedica un capitolo allo “sviluppo verde”, in cui le due parti, che dicono di sostenere “pienamente l’obiettivo di sviluppare la connettività seguendo un approccio sostenibile e rispettoso dell’ambiente, emissione di carbonio e l’economia circolare”, si impegnano a collaborare per la promozione attiva dell’Agenda 2030 per lo Sviluppo Sostenibile e dell’Accordo di Parigi sui Cambiamenti climatici, con la partecipazione del ministero dell’Ambiente.
A tutte queste notazioni va fatto seguire un “però”: nessuno dei contratti commerciali annunciati è stato accompagnato da una valutazione d’impatto economica, sociale e ambientale trasparente e verificabile. Nessuno sa chi li abbia sottoposti, assunti e perché, a parte quanto si può leggere in comunicati stampa più celebrativi che analitici. Non c’è nessun meccanismo stabile e trasparente di esame di queste iniziative, alla luce dei pur ambiziosi obiettivi ambientali già citati. Della Task force sui trattati commerciali istituita presso il Mise, che avrebbe dovuto quantomeno permettere alle organizzazioni ambientaliste, della società civile e dei consumatori, di valutare l’effetto incrociato di tutti i trattati che l’Italia si trova a appoggiare nel Consiglio europeo, non c’è traccia e dalle ultime convocazioni le associazioni – dalla Campagna Stop Tttip/Ceta, a Greenpeace, a Slow food – erano state escluse senza alcuna notifica o motivata spiegazione, con buona pace delle sicuramente ottime arance spedite in terra cinese.
Questo problema, inoltre, non riguarda soltanto il rapporto italiano con la Cina, ma anche quello – di cui nessuno vuol parlare – con gli Usa. Proprio ieri sera il ministro degli Esteri Moavero Milanesiii, dopo aver ricevuto un’interrogazione delle parlamentari del M5s Cunial e Giannoneiii, rispondendo a una domanda dell’onorevole Stefano Fassina di Si sul perché l’Italia, nel Consiglio europeo, abbia dato il via libera al nuovo negoziato di liberalizzazione commerciale tra Usa e Ue quando nel Contratto di Governo ci fosse l’impegno a non farlo, ha spiegato che quello non sarebbe più un Ttip, ma un limitato accordo di abbattimento di dazi.
Peccato che – come spiega la stessa commissione Ue – il mandato affidatole dai Governi Ue per negoziare il Ttip non le sia mai stato revocato e che entro questa cornice la Commissione abbia ottenuto anche dal Governo italiano il via libera a negoziare due mandati in totale continuità: uno, è vero, sui dazi, che esclude lo spinoso tema dell’agricoltura; il secondo, però, verte sulla cooperazione regolatoria tra Usa e Ue, il vero obiettivo del vecchio Ttip, e non esclude alcuna regola dalla semplificazione in nome del profitto: dai farmaci al cibo, dai diritti del lavoro alla salute, all’ambiente. Senza contare che la Commissione Ue ha rinunciato a condurre alcuna valutazione d’impatto economica, sociale o ambientale sul negoziato e quindi non sapremo chi ne incasserà qualcosa e quanto ci costerà davvero.
L’unica coerenza che si può rintracciare nel caso di Cina e Usa, da parte italiana, è quella di un avanzare alla ricerca di qualunque opportunità, senza capire – e farci capire in alcun modo – chi ci guadagna e a quali condizioni per tutti. Una consolidata cecità tutta made in Italy che questo Governo, purtroppo, non sembra abbia intenzione di curare.