“Potranno recidere tutti i fiori ma non potranno fermare la primavera”. M’immagino questa citazione di Pablo Neruda scritta a caratteri cubitali sulle bandiere sventolate dai sindacati bancari scioperanti in piazza. È un pensiero cattivo, potreste obiettarmi, da esterni alla realtà bancaria. In effetti, sembrerebbe così. Poi ammettiamolo: nell’epoca occidentale che viviamo, affrontare un discorso critico sull’attività di un movimento (come lo è un sindacato) pesa quasi quanto un reato di lesa maestà. Eppure voglio farlo.
La primavera (quella stagionale) è entrata da quasi dieci giorni, quella dei sindacati bancari si è presa le scene il 25 marzo in una conferenza tenuta a Milano da tutte le maggiori sigle, venute fuori magicamente da un letargo durato circa 20 anni. I rappresentanti dei lavoratori si sono detti stufi: a risvegliarli dal lungo sonno sono state due possibili modifiche del contratto dei bancari che l’Abi sembra approvare: una forma ibrida e un’altra che prevede uno stipendio a due velocità. La versione ibrida è quella già usata da Intesa, dove il lavoro del bancario (meglio ancora del consulente bancario) è suddiviso tra subordinato e autonomo (promotore finanziario). Lo stipendio a due velocità riguarda semplicemente una forma di retribuzione basata su uno standard fisso sommato a una parte variabile che dipende dai risultati.
È successo il finimondo. A queste provocazioni contrattuali hanno risposto con una minaccia, “siamo pronti a scendere in piazza!”, forte di mille rivendicazioni: “Se le banche sono tornate agli utili e gli azionisti hanno dividendi importanti il merito è dei lavoratori. Certi stipendi di ad e dirigenti di prima fascia e certi compensi ai consiglieri di amministrazioni non sono sostenibili come ciò che proponiamo” (parole di Lando Maria Sileoni, Fabi). Ciò che propongono è un aumento delle retribuzioni del 6,5%. Nel momento in cui il Paese è a crescita zero e il settore bancario attraversa la più profonda crisi della sua storia, loro affermano che gli utili del settore nel 2018 sono stati di 9,3 miliardi di euro. Dimenticando che in Italia ci sono oltre 600 banche, fate un po’ voi la media di utili per singola banca.
C’è, inoltre, una replica a un’accusa, quella di essere privilegiati. Non è vero, tuonano i sindacati bancari, replicando che il fondo esuberi lo autofinanziano praticamente da sempre. Allora, Vincenzo, cosa c’è criticare? Questi sembrano dipinti da Delacroix, La libertà che guida il popolo dei bancari. Regola numero uno: quando i sindacati fanno finta di non capire o recitano la parte delle vittime stanno dimostrando la loro totale ipocrisia, che poi è alla base di tutta la loro voluta e cercata inconcludenza.
Chi vi parla non è un capitalista, ma uno che ha vissuto il rapporto professionale con i sindacati in questione per oltre 20 anni. Ne ho viste di tutti i colori e tutte le misure (sapete che Io so e ho le prove) negli anni delle “vacche grasse”: i delegati delle Rsa nei giorni di sciopero, proclamati dalla stessa sigla, chiedevano giorni di ferie per non vedersi gli stipendi decurtati, i sindacalisti usavano i loro permessi per presentarsi il giorno dopo in ufficio più abbronzati. Gli interessi privati era soventemente mascherati da funzioni nobili. Il numero degli iscritti aumentava, tutti erano soddisfatti e contenti, c’erano benefit e privilegi per tutti.
Contate qualche lamentela di questi organi negli anni d’oro delle banche? All’epoca, dov’erano i sindacati? Quando il tavolo imbandito permetteva a tutti di lasciare la sala pranzo (o riunione) sazi, anche solo di briciole che abbondavano tanto da poter fungere da pranzo completo, chi sentiva l’eco delle loro lamentele? Io sentivo solo stomaci sazi. Ora hanno sete più che fame, perché hanno chiuso i rubinetti, e si arrampicano sui capisaldi obsoleti delle categorie. Non vi accorgete che parlano il linguaggio di 20 anni fa, che vivono un’altra epoca. La sensazione, per certi versi straniante, è di ritrovarsi in un luogo dimenticato. Frittole appunto, dove finirono Massimo Troisi e Roberto Benigni perdendosi in Non ci resta che piangere.
Qualche tempo fa mi chiedevo se l’anacronismo di questi sindacati (i quali rappresentano circa 300mila addetti del mondo degli istituti di credito) fosse da attribuire a un orologio rimasto fermo per circa 20 anni, a un problema di competenze, capacità di analisi o a tanta ipocrisia. Nei mesi ho sciolto i dubbi. Le competenze mancano perché i bravi sono stati allontanati sempre, perché alteravano il sistema, lo sovvertivano, perché non c’è stata l’intelligenza di guardare avanti ma le lancette (di quell’orologio prima citato) si sono spezzate per ipocrisia. L’anacronismo dei sindacati è sintomo e simbolo d’ipocrisia.
Le banche in Italia attraversano il periodo più critico della loro storia. Ecco perché nessuno protestava prima e ora sì. Questo è il futuro che non hanno voluto anticipare, al quale non hanno voluto prepararsi: meglio non perdere quello che si aveva già, sarebbe potuto durare per sempre. Sarebbe, ma nulla dura per sempre, nemmeno i diamanti: questo chi conosce le banche lo sa bene.
Le stesse banche non saranno più le stesse, cambieranno ancora. Avete mai sentito parlato di FinTech? La FinTech prenderà lo scettro della finanza e dell’economia mondiale nel giro di qualche anno. I sindacati di informatica e cibernetica non ne hanno mai parlato, non ne parlano ancora, parlano dei contratti. Ai lavoratori bancari meglio parlare dell’uovo oggi invece che dell’enorme gallina o delle competenze necessarie a superare un processo di mutazione interno – che è incombente e che porterà inevitabilmente a una exit strategy che farà feriti, se non morti. Il passato che si ripete e l’ipocrisia. Semplicemente la primavera dei sindacati bancari.