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“Non una di meno. Insieme siam venute, insieme torneremo”. Ore 9 del mattino, ex Magazzini Generali di Verona. 400 femministe dentro una sala strapiena si alzano in piedi sventolando i loro fazzoletti fucsia e si mettono a cantare. Neanche dodici ore prima erano nelle strade a protestare contro il World Congress of Families: hanno invaso la città e messo in piedi la prima reazione di massa all’evento sostenuto da associazioni antiabortiste e contro i diritti lgbtqi+. “E’ stato meraviglioso”, dicono una dopo l’altra prendendo il microfono. Hanno vinto, almeno per un giorno, e oggi si sono radunate per la prima assemblea transnazionale della storia di “Non una di meno”. E’ una tappa, un segnale. Se a meno di due chilometri di distanza sta per andare in scena la marcia della famiglia, il movimento femminista dimostra di non accontentarsi di una piazza, ma di essere già al lavoro per strutturare una lotta che possa riuscire ad avere una durata nel tempo e soprattutto effetti concreti. “Fino a questo momento”, spiega Lidia Salvatori, ricercatrice dell’Università di Leicester e attivista, “c’erano stati solo contatti individuali con le attiviste straniere. Oggi si fa un passo in più e si lavora a una rete permanente e a un grande evento alla fine dell’anno”. Per tutto il giorno, sul palco si alternano i volti del movimento femminista di tutto il mondo. In prima fila Marta Pillon, l’attivista e fondatrice di Ni una menos in Argentina. Poi decine di femministe da Polonia, Spagna, Svizzera, Francia, Bielorussia, Andorra, Inghilterra, Germania, Nicaragua, Stati uniti. E naturalmente le italiane, da Trento a Catania.
Il punto da cui partono sono le battaglie comuni: la violenza di genere e i femminicidi, ma anche le discriminazioni sul lavoro e gli attacchi delle destre che “si ripetono tutti uguali nel mondo”. Hanno storie simili alle spalle e ora vogliono fare un pezzo del cammino insieme. Hanno una consapevolezza: di tutti i movimenti che si sono sviluppati in reazione alla crisi economica in Europa, quello femminista è stato quello davvero capace di affermarsi e soprattutto essere inclusivo. “Dal 2016 a oggi”, ha esordito Francesca Milan di Non una di meno Verona, “noi abbiamo rappresentato una costante opposizione alle forze di governo. Siamo state capaci di riportare al centro della discussione non solo la violenza di genere e il patriarcato, ma anche il discorso sull’autodeterminazione delle donne”. Lo sciopero dell’8 marzo, condiviso e partecipato in tutto il mondo, è stato un passaggio fondamentale: “La dimensione transnazionale dello sciopero ha fatto fare un salto al movimento perché ci ha fatto discutere di lotta. Non siamo più disposte a fare compromessi, non siamo qui per resistere, ma per cambiare l’esistente”. E’ solo uno dei tanti slogan emersi durante il giorno, ma le femministe garantiscono che dietro c’è un piano concreto: “La rete trasnazionale è la nostra forza”, chiude Francesca. “Se rinsaldiamo i nostri contatti, la lotta femminista sarà globale e porteremo a casa più risultati”.
L’assemblea è durata più di cinque ore e ha visto decine di interventi. Tra le più seguite e ascoltate c’è stata naturalmente Marta Dillon. Proprio lei, una dello voci più autorevoli, ha deciso di aprire la discussione su alcune delle questioni critiche con cui Nudm deve fare i conti: “Vorrei”, ha detto, “che riflettessimo anche su quello che ancora non siamo riuscite a fare. Ad esempio: non siamo riuscite a elaborare una forma di organizzazione politica che si possa immaginare senza meccanismi di rappresentanza”. E questo, per Dillon, nel concreto significa che il movimento “deve interrogarsi su cosa significa potere” e su che tipo di uso vuole farne. L’altro punto sollevato è quello della capacità di contrapporre alla “pedagogia del patriarcato una pedagogia femminista”, ovvero un’educazione che riconosca “le une e le altre”. Infine Dillon ha parlato di chi mancava nell’assemblea di Verona: “Qui tra noi oggi mancano donne migranti e trans. Il movimento femminista non può essere tale senza la presenza della soggettività subalterne che sono sotto attacco”. Quindi ha fatto un appello: “Ricordatevi del Sud del mondo, ancora troppo spesso dimenticato”.
C’è poi un asse con l’Est che va dall’Italia e arriva in Polonia, Russia e Bielorussia: come i fedelissimi del governo polacco o russo hanno preso parte al WCF, così le attiviste dei vari Paesi hanno iniziato a dialogare. Per la Polonia in assemblea ha parlato Elizabieta, attivista del Women’s strike, e ha voluto dare tre spunti di riflessione alle compagne. “Chi ci combatte sa usare molto bene i social network e usa messaggi rassicuranti. Li ho sentiti parlare al WCF e accordarsi per fare un post con l’immagine della famiglia all’ora di cena. Usano il nostro linguaggio”, ha detto interrotta dagli applausi. “Ma la realtà è diversa e noi dobbiamo riuscire a rovesciare la loro retorica. La difesa della famiglia tradizionale si traduce in donne che soffrono, donne che non possono non fare figli e donne che non sono accettate. Dobbiamo ricordarlo ogni giorno all’opinione pubblica”. Per l’attivista polacca la questione va oltre e lei è l’unica ad aver avuto il coraggio di pronunciarla ad alta voce di fronte alla sala: “Il nostro problema è che non abbiamo una rappresentazione politica. Penso alla Polonia e all’Italia, dove governa la destra. E la sinistra fa schifo in quello che sta facendo”. E non basta, ha detto Elizabieta, stare nelle strade o nelle manifestazioni: “Dobbiamo essere più forti, mettere più pressione sui politici”, è stato il suo appello. “E dobbiamo cercare una rappresentanza. Se continuiamo a essere confinati nel luogo di quelli che non hanno potere, continueremo a non essere ascoltate”. Le attiviste applaudono, non tutte sono d’accordo, ma il dibattito è aperto e nei prossimi mesi cercheranno di svilupparlo. Oggi, intanto, senza voce e con l’adrenalina ancora in circolo, si godono la festa fino all’ultimo coro: “Insieme siam partire, insieme torneremo. Il corpo ci appartiene. Non una, non una, di meno”.