In fondo questo posto era già Oregon (…) E un giorno sarebbe stato colonizzato. Adesso era certo che sarebbe stato così. Nulla lo avrebbe impedito. La gente sarebbe arrivata a ovest, poi altra gente ancora, come aveva fatto lui stesso, senza pensare precisamente al perché, ma solo sulla base dell’impulso, come se stessero eseguendo una volontà di Dio (…) L’obiettivo era più grande di qualsiasi dolore. Quel confine immaginario catturava l’immaginazione dell’uomo. Lo riempiva di meraviglia. Lo faceva sentire in qualche modo grande.

Il sentiero del West, di A. B. Guthrie (traduzione di Nicola Manuppelli; Mattioli 1885) è la quintessenza del mito della frontiera, un romanzo splendido, con un linguaggio limpido – magnificamente tradotto – e personaggi indimenticabili. Siamo nel 1846 e una carovana di pionieri parte dal Missouri alla volta dell’Oregon. Quasi milleottocento miglia a bordo di carri trainati da buoi, attraverso territori impervi, a contatto con una natura incontaminata, tribù indiane, redenzioni, solidarietà, atti di eroismo e di vigliaccheria. A. B. Guthrie, che con questo testo ha vinto il Premio Pulitzer nel 1950, mette in scena una carrellata memorabile di “attori” che si muovono in un contesto solenne. 

Archetipi americani, dal vecchio mountain man Dick Summers all’imprevedibile e represso Mack, dal factotum Hig al cinico e ottuso capocarovana Tadlock, dalle tenaci e indistruttibili donne dei coloni ai giovani pieni di entusiasmo, fino ad arrivare a Lije Evans, mansueto, caparbio e democratico fattore votato all’avventura e al mito. Intorno una natura che è lirica, bella e, a volte, irrefrenabile nella sua possenza:

Era il rumore di milioni di bisonti impazziti, lo scalpiccio dei loro zoccoli che cominciava a scuotere il mondo al punto tale che non si udivano nemmeno più i suoni (…) Non gli rimase altro da fare che aspettare l’immensa carica di teste e zoccoli che si sollevavano da terra, e quella lunga orda lo avrebbe calpestato. Inutile correre verso il fuoco. Non c’era tempo di ricaricare. Bisognava restare lì ad affrontarla e farla finita. Urrà per l’Oregon!

Racconti dal Dakota, di Hamlin Garland (traduzione di Sara Inga; D Editore), anche lui Premio Pulitzer nel 1922, è un’altro testo memorabile, che vede tracce, nello stile, di quella che sarà la letteratura statunitense del Nocevento (penso soprattutto a Sherwood Anderson e Thomas Wolfe). Scritto intorno al 1887 risultato di una vacanza estiva che l’autore trascorse tra la sua vecchia casa in Iowa, la fattoria del padre in Dakota e il Wisconsin, i sei racconti sono un percorso entusiasmante ed esaustivo tra le praterie che descrive la vita dei coloni e degli agricoltori, le loro fatiche quotidiane e le loro difficoltà in una terra dura e affascinante. 

Garland racconta il contrasto tra la vita agreste e quello che i pionieri si sono trascinati dietro, paradossalmente, nel loro percorso verso la frontiera mobile: l’incessante avanzare delle città. Un avanzare che si nutre delle campagne, portando a galla differenze esistenziali tra i veterani del richiamo dell’Ovest e i nuovi venuti, metodologie diverse nei confronti della vendetta e delle scelte arcaiche dell’animo umano:

Rivers non avrebbe mai potuto sparare. Quella minaccia nasceva da un solo istante in cui un antico demone si era impossessato delle sue membra. Un demone che parlava la lingua dell’istinto, che arrivava da lontano, da un tempo in cui anche l’uomo bianco era selvaggio e incapace di interrogarsi su ciò che lo circondava, ossessionato com’era dai bisogni più primitivi. Rivers si era fatto dominare per un istante da quel demone, ma riuscì subito a domarlo. Si voltò, maledicendo la sua sfortuna. Il suo volto si fece bianco per la tensione accumulata. Era orribile pensare che si sarebbe potuto rischiare un fratricidio.

Una commedia americana. Temi, innovazioni e religione nell’opera di Elmore Leonard, di Giulio Segato (Mimesis Edizioni) è un interessante saggio dedicato a uno degli autori più interessanti del panorama statunitense. Analizzando, in parte, i 44 romanzi pubblicati da Leonard, Segato afferma che questi potrebbero essere letti come un’unica grande narrazione che segue smarriti, a volte sicuri, personaggi lungo le strade della provincia americana. 

Interessante la parte dedicata al Western, primo genere affrontato dall’autore nella sua lunga carriera, racconti che lo fanno sembrare un sovversivo nel saloon della tradizione letteraria benpensante: banditi indecisi, apache ragionevoli, la prontezza d’azione delle donne (generalmente una carateristica affidata agli eroi maschili). Una cosa risulta chiara fin dall’inizio: Leonard, tra le righe, afferma che già ai tempi del West selvaggio è la società a essere vittima delle persone, e non viceversa.

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