Quello che so è che provo una grande rabbia, una grossa indignazione. I dati del crollo del manifatturiero, siano essi tedeschi o italiani o mondiali, mi interessano poco. Si tratta di una “sveglia” che, però, io sento suonare da anni, nel fragore del silenzio dei responsabili. I mali più profondi si chiamano “pressappochismo” e “faciloneria“. Scarsa propensione ad approfondire, desiderio di tranquillizzare ai fini del consenso elettorale.

Da tre anni scrivo su ilfattoquotidiano.it (sono ormai una sessantina i post del mio blog) che per capire il problema (drammatico, ma non da adesso) del nostro enorme ma traballino “sistema manifatturiero” bisognava scomporre i dati: togliete i valori relativi al business della “moda” e a quello del food (alimentare) – questi due business vanno benone (alla faccia dell’euro) – e vedrete che il mondo sta bellamente espellendo il nostro manifatturiero “non-moda e non-food” dagli scambi internazionali. Un vero e colossale disastro.

Ma non è solo questione di quantità: il problema è soprattutto relativo alla qualità dei business manifatturieri (sempre escludendo moda e food) che man mano ci sono in qualche modo restati in mano. Tema sul quale il silenzio dei nostri esperti continua ad essere assordante.

Due considerazioni-base, mai citate neppure di striscio. I numeri sono volutamente approssimati, l’importante è che trasmettano le giuste sensazioni. Su di essi non accetto discussioni capziose. La prima – Variazione dal 1984 (epoca della “e la nave va” di craxiana memoria) ai giorni nostri della partecipazione percentuale del nostro manifatturiero (non-moda e non-food) alla totalità degli scambi internazionali: dal 2,5% allo 0,5% (per moda e food dal 2,5% al 2,5%: inalterata); totale partecipazione del nostro manifatturiero (comprese moda e food): dal 5% al 3%.

La seconda – Abbiamo campato, e degnamente, sull’onda del made in Italy, dell’estro italiano, del design italiano: e com’è potuto essere che siamo diventati i campioni mondiali della subfornitura? Dove il made in Italy, l’estro italiano, il design italiano contano come il due di picche a briscola di cuori?

Che c’entrano i grandi numeri, l’euro, Maastricht, il Jobs Act e chi più ne ha più ne metta con questo disastro? Che c’entrano le visioni bocconiane o esperte della dottrina scolastica? E’ evidente che ciò è accaduto per una colossale mancanza di orientamento della nostra economia industriale: orientamento, non “evoluzione programmata o obbligata”. Il problema riguarda gli ufficiali, non i soldati semplici. A meno che non si insista con le versioni tipo Cadorna che addebitava alla viltà dei soldati la disfatta di Caporetto (vedi le litanie sull’eccessivo costo del lavoro).

E’ normalissimo addebitare questa situazione alla polverizzazione delle nostre imprese e, quindi, alla polverizzazione dei capitali privati. Certo, è un grande vantaggio, a condizione che si usi questo scenario in modo intelligente. Di sicuro c’è che il modo perseguito fino ad oggi è soltanto perdente, di brevissimo respiro. Bisogna cambiare: bisogna uscire dagli schemi.

Ma c’è di più. In questo lasso di tempo (dal 1984 ad oggi) è avvenuto anche un fenomeno leggermente destabilizzante: l’ingresso con gli scarponi chiodati della Cina nel consesso economico mondiale. Questo fatto, che ancora prosegue, ha determinato un disorientamento caratteristico di coloro che hanno la vista limitata al proprio orticello: se siamo diventati i re della subfornitura, ciò è proprio dovuto al fatto che la nostra imprenditoria (con le dovute eccezioni, beninteso) ha statisticamente adottato una sanguinosa e perdente battaglia di retroguardia mirata a conservare il più a lungo possibile i propri tradizionali territori di mercato. Oltretutto quello della subfornitura è proprio il mercato meno fidelizzabile, più controllabile e a rischio: in buona sostanza meno remunerativo che esista.

E’ mancato e manca il “cervello“; d’altro canto è questo il muscolo più difficile da far lavorare. Siamo sì un grande sistema manifatturiero, ma paragonabile a una orchestra enorme, supercompletissima, senza uno straccio di uno spartito. Immaginate una diligenza bellissima, robustissima, carica di optionals, trainata da sei enormi cavalloni scalpitanti, ma non dotata di un timone cui attaccare i quadrupedi: questi tirano tutti come forsennati, ma ciascuno per conto suo e senza una direzione. Dove volete che vada, prima o poi, a sbattere?

Eppure una via d’uscita, una soluzione strategica che riesca a salvare la capra e il cavolo, esiste. E noi siamo già attrezzati per adottarla, salvando ogni singola proprietà. Ma qualche nostro dirigente la intuisce? Forse non ancora.

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