Per Valeria Giannotta, docente di Relazioni Internazionali all’università di Ankara e autrice del libro Erdogan e il suo partito (Castelvecchi, 2018) uno dei cavalli di battaglia del presidente Erdoğan, la crescita economica, è venuto meno con la crisi e il crollo della Lira turca. E i primi a fargliela scontare sono stati gli elettori delle due grandi città del Paese
Una vittoria netta con qualche pesante battuta d’arresto. È su questo doppio binario che viaggiano i risultati del Partito della Giustizia e dello Sviluppo (Akp) alle Amministrative del 31 marzo in Turchia. Da una parte la conferma del dominio a livello nazionale, con oltre 20,5 milioni di preferenze che hanno portato la formazione al 44,3% (+1,5% rispetto alle Amministrative del 2014 e quasi due punti in più delle Parlamentari del giugno 2018), con il Partito Repubblicano (Chp) che segue al 30%. Dall’altra, la caduta delle due più grandi città del Paese: la capitale Ankara e Istanbul, cuore economico del Paese, in mano ai conservatori da circa 25 anni. Oggi il partito del Presidente Recep Tayyip Erdoğan controlla solo tre delle dieci città più popolose del Paese. “Se la retorica nazionalista rimane ancora forte, nonostante abbia già ottenuto il massimo da questa strategia, – spiega a ilfattoquotidiano.it Valeria Giannotta, docente di Relazioni Internazionali all’università di Ankara e autrice del libro Erdogan e il suo partito (Castelvecchi, 2018) – l’altro cavallo di battaglia del presidente Erdoğan, la crescita economica, è venuto meno con la crisi e il crollo della Lira turca. E i primi a fargliela scontare sono stati gli elettori delle due grandi città del Paese”.
Le sconfitte più amare per il partito di governo sono certamente quelle di Ankara e Istanbul. Nella città sul Bosforo si è assistito a un testa a testa che ha però premiato il Chp, nonostante le proteste sulla regolarità del voto. Qui l’Akp governava da 15 anni e negli ultimi 25 l’amministrazione era sempre stata di stampo conservatore, dopo l’elezione dello stesso Erdoğan nel 1994. Situazione simile a quella di Ankara, dove dal 1994 al 2017 il sindaco è stato Melih Gökçek, membro dell’Akp, che negli ultimi due anni ha passato il testimone a un altro compagno di partito, Mustafa Tuna. Qui, però, la vittoria dei Repubblicani è stata più netta: 51% delle preferenze contro il 47%. “Fondamentalmente, il popolo turco è stanco degli allarmi sulla sicurezza, il terrorismo e del nazionalismo – continua Giannotta – Sono tutti messaggi che trovano riscontro quando le cose vanno bene. Oggi, però, l’inflazione è alle stelle (intorno al 20%, ndr) e la disoccupazione è all’11%. I prezzi dei beni primari sono cresciuti moltissimo, così il turco medio si trova spesso in gravi difficoltà economiche. Il governo ha anche aperto dei punti vendita che distribuiscono frutta e verdura a prezzi più moderati rispetto a quelli dei supermercati e in fila si trovano persone che fino a oggi erano elettori dell’Akp”.
Se si dà uno sguardo alle dieci città più popolose del Paese, però, la perdita di terreno dell’Akp nelle grandi aree urbane risulta più evidente. Sotto il loro controllo ne rimangono solo tre, Bursa, Gaziantep e Konya, e alcune di quelle passate al Chp erano governate proprio da sindaci Akp. “Va detto – continua la docente – che il partito di governo controlla ancora 15 comuni metropolitani e che alcune delle maggiori città, come Smirne e quelle che si affacciano sulla costa mediterranea, sono storicamente roccaforti del Chp. Ma è chiaro che un cambiamento c’è stato. L’elettorato aveva la sensazione di vivere in un sistema bloccato, senza ricircolo, anche a causa della svolta presidenzialista che ha trasformato l’Akp in un partito di Stato. Questa sensazione è meno percepibile quando le cose vanno bene, con l’economia in crescita, ma quando i problemi iniziano a emergere ecco che arriva velocemente l’esigenza di un cambiamento. Almeno possiamo dire che il Paese vive ancora in un sistema fortemente democratico, cosa che qualcuno aveva messo in dubbio, altrimenti Erdoğan non avrebbe mai perso Ankara e Istanbul”.
Passati ormai quasi tre anni dal fallito colpo di Stato del 2016, durante i quali il governo ha arrestato migliaia di sospettati, con la stagione del terrorismo interno che non interessa più i grandi centri del Paese, grazie anche alla graduale perdita di terreno dello Stato Islamico in Siria, e con la crisi economica e la svalutazione della Lira turca che invece sono diventate la principale emergenza del Paese, i messaggi di stampo fortemente nazionalista non hanno più presa su una parte della popolazione: “Mentre nelle aree rurali, più legate alle tradizioni e alla necessità di uno sviluppo infrastrutturale al quale il governo ha risposto in questi anni, il consenso rimane alto, nelle città la crisi ha tolto voti all’Akp – dice Giannotta – le sparate come quella sulla reintroduzione della pena di morte o l’ultima sulla riconversione di Aya Sofya in moschea non possono colmare le difficoltà economiche in città come Istanbul. Inoltre, Erdoğan ha presentato candidati che erano spesso politici di alto livello ma poco legati al territorio. Anche il ruolo esercitato dai circa 53mila rifugiati siriani con diritto di voto può aver influito: per loro non era certo conveniente dare la preferenza a un partito fortemente nazionalista”.
Adesso, salvo stravolgimenti, la Turchia tornerà al voto nel 2023. Quattro anni in cui Erdoğan, recepito il segnale, dovrà offrire risposte al paese: “Ieri, nel suo discorso, il presidente mi ha stupito – conclude Giannotta – Ѐ stato diplomatico e ha ammesso che esistono questioni che richiedono riforme urgenti. In questi quattro anni credo che si dedicherà proprio a questo. Sarà una stagione di riforme e di cambiamenti interni, sia nel partito che nel governo”.