Le intercettazioni avrebbero permesso che informazioni private e foto hot finissero su alcuni tabloid. Non è stato provato che il National Inquirer ottenne dai sauditi gli scatti osé del patron di Amazon con la giornalista spagnola Lauren Sanchez
Il governo dell’Arabia Saudita ha “intercettato” il telefono di Jeff Bezos provando a far filtrate su alcuni tabloid informazioni private e foto hard. Questa l’accusa lanciata dal principale consulente sulla sicurezza dell’amministratore delegato e patron di Amazon, Gavin de Becker, sul sito del Daily Beast: “La nostra indagine è giunta alla conclusione, con la massima fiducia, che i sauditi hanno avuto accesso al telefono di Bezos e ottenuto informazioni private”.
Secondo De Becker, obiettivo di Riad sarebbe stato quello di colpire il Washington Post, di proprietà di Bezos: “Molti americani saranno sorpresi di apprendere che il governo saudita ha cercato di danneggiare Jeff Bezos dallo scorso ottobre, quando il Post ha iniziato il suo implacabile lavoro” sull’assassinio del giornalista saudita dissidente Jamal Khashoggi nel consolato saudita di Istanbul. Assassinio sul quale il Senato Usa sembra aver fatto luce: dopo un briefing a porte chiuse con la Cia, Mohammad Bin Salman (principe ereditario dell’Arabia Saudita) è stato designato come “responsabile” dell’omicidio di Khashoggi. L’investigatore – membro di una delle migliori società di protezione degli Usa – non ha tuttavia precisato i nomi dei responsabili del pirataggio fornendo pochi elementi sull’inchiesta che ha invece “inviato alle autorità federali“.
L’accusa tuttavia non si estende all’American Media Inc. Non è stato quindi provato che che il National Inquirer ottenne dai sauditi le foto osé di Bezos con la giornalista spagnola Lauren Sanchez. Bezos aveva accusato l’Ami di “ricatto e estorsione” per aver minacciato di pubblicare le foto se De Becker avesse concluso nelle sue indagini che le informazioni pubblicate dal tabloid non fossero motivate politicamente o frutto di illecite intercettazioni elettroniche. La vicenda aveva anche toccato il presidente Trump, amico stretto dell’editore David Pecker, che aveva apostrofato più volte il Washington Post “nemico del popolo” e fonte di “fake news”.