C’è qualcosa di marcio – molto marcio – nel Paese che ama chiamare se stesso o mais grande do mundo. E di certo grande (anche se non forse il più grande del mondo) è il tanfo che dal suo epicentro politico – il Palácio do Planalto, sede della presidenza della Repubblica, in quel di Brasilia – va da qualche mese diffondendosi dentro e ben al di là dei suoi sterminati confini. Il fetore in questione è, ovviamente, quello inconfondibilmente pestilenziale (pestilenziale come la morte e ben noto a tutti i brasiliani nati prima degli anni 80) della dittatura militare. O, più specificamente: quello della dittatura militare che resse il Paese tra il 1964 e il 1985, in una classica scia di torture e desapariciones. La stessa dittatura che il neopresidente brasiliano, Jair Bolsonaro, ha giorni fa invitato a celebrare non solo ufficialmente, ma anche con la dovuta pompa, specie nei luoghi dove il 31 marzo 1964 era stata gloriosamente partorita: le caserme e i centri di comando.

Le cronache dell’evento sono note. Dapprima proibita da un giudice perché “contraria ai principi democratici” che reggono la nazione (sanciti dalla Costituzione varata nel 1988), la celebrazione di cui sopra ha ottenuto un via libera in appello nel nome della piuttosto bizzarra interpretazione d’un diritto, quello alla libertà di parola o al “pluralismo delle idee”, sacro in ogni democrazia. Bizzarra, naturalmente, perché tale celebrazione, lungi dall’essere praticata da singoli cittadini o da private associazioni, è nel caso in questione appannaggio di istituzioni il cui compito dovrebbe essere, Costituzione alla mano, proprio quello di garantire il Paese a fronte d’ogni nuova tentazione dittatoriale. Dittatura è bello, dunque. Viva la dittatura. Questo è il grido che, con sinistri rintocchi e nel nome della democrazia, è risuonato ieri in ogni anfratto del Brasile. Il tutto – è appena il caso di ricordarlo – mentre, in una ormai consueta e ammiccante pantomima, Jair Bolsonaro andava ribadendo la sua inalterata e inalterabile volontà di rispettare e difendere la Costituzione. Ridicolo. Ridicolo e tragico. Ma qual è il senso ultimo di questa maleodorante tragicommedia?

Volendo rispondere con una battuta – ovvero, contrapponendo farsa alla farsa – ci si potrebbe limitare a osservare come la celebrazione della vecchia dittatura in effetti non rappresenti, per Jair Bolsonaro, che un significativo passo verso più moderati e democratici approdi. Sì, perché prima della sua elezione a presidente, a quella dittatura l’ex capitano non aveva, com’è noto, mancato di rivolgere assai aspre critiche. Su tutte: quella di non aver “eliminato” abbastanza gente. O più precisamente: quella d’esser rimasta molto al di sotto dei 30mila morti ammazzati, evidentemente considerati uno standard minimo d’accettabile ferocia. E non sarebbe questa, peraltro, che una delle molte possibili citazioni “fascio-bolsonaresche” atte a dimostrare come, in realtà, la vecchia dittatura si trovi “alla sinistra” dell’attuale presidente: dalle frequenti massime anti-omosessuali (“meglio un figlio morto che un figlio gay”), alle innumerevoli esternazioni misogine, alla ripetuta esaltazione della “eroica figura” del colonnello Carlos Brilhante Ustra, uno dei più malfamati torturatori della passata dittatura. E si potrebbe infine concludere – sempre restando nel paradosso – che i militari con i quali Bolsonaro ha imbottito il suo governo costituiscono oggi – a cominciare dal vicepresidente, il generale Hamilton Mourão – un elemento di moderazione e di residuo buon senso.

Il punto vero è tuttavia un altro. Quello che emana oggi dal Palácio do Planalto è, certo, il nauseante olezzo della dittatura. Ma anche qualcosa di più e di peggio. È, a tutti gli effetti, parte d’un morbo che percorre l’intero Occidente (laddove per “Occidente” s’intende il luogo di nascita della democrazia, della tolleranza e del rispetto per i diritti umani definita dall’Illuminismo). Un morbo che, non a caso, ha la sua principale fonte d’infezione proprio in quello che da tempo è considerato (io credo a torto, ma qui poco importa) il centro propulsore dell’Occidente: gli Stati Uniti d’America, oggi governati da Donald Trump.

Per cogliere questa verità basta ripercorrere le cronache della recentissima visita a Washington di Jair Bolsonaro. Non solo e non tanto quelle, ufficialissime, degli incontri tra i due presidenti, pur ricche di significative immagini e d’ancor più significative parole. O per meglio dire: illuminate da una sorta di diseguale storia d’amore tra Donald e Jair, il primo nelle vesti di bonario padrone e il secondo in quello del più ossequioso dei maggiordomi. Perché Bolsonaro – molto significativa la sua visita, piena d’ammirati accenti, alla sede della Cia – ha più che legittimamente riscoperto, alla presenza di Trump, non l’America della Dichiarazione d’indipendenza (quella del “tutti gli uomini sono creati uguali”) o della Statua della Libertà, ma quella della “dottrina Monroe”, dell’Haiti del 1915, del Guatemala del 1954, di Santo Domingo nel 1964 o quella dell’Operazione Condor, di cui la dittatura militare brasiliana fu parte integrante.

No: per cogliere a fondo il senso del rapporto, diseguale ma solidissimo, tra Bolsonaro e Trump bisogna cercare a margine dell’ufficialità. E in particolare esaminare la riunione – una sorta di Internazionale dell’oscurantismo – che, non per caso nelle sale pacchianamente adornate del Trump International Hotel di Washington, si sono svolte tra i personaggi che del trump-bolsonarismo si considerano i veri ispiratori e interpreti. Chi sono e che cosa pensano lo racconterò – avendo raggiunto i limiti di spazio consentiti – nel mio prossimo post.

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