Ai bastioni di Porta Venezia va in scena l’arte anti-sovranista, un migliaio di sacchi di caffè e cacao tutti provenienti dal Ghana, sotto i quali si sono spezzate le schiene eserciti di schiavi, hanno impacchettato quelli che un tempo erano i caselli daziari, simbolo del vecchio confine tra la città e la campagna
È sempre arrivato prima degli altri: alla Bocconi insegna “Gestione della crisi e dei processi di risanamento”. Il suo studio, fra i più importanti Italia, è specializzato in strategie fiscali e d’impresa. Alessandro Danovi, collezionista di originalissime sculture (sulla scrivania tiene d’occhio un gigantesco ovale in agata) ha trasformato gli ampi saloni neoclassici in “Studio Gallery”, il primo a inaugurare nella rutilante settimana dedicata a MiArt. E lo fa con un’artista di frontiera Marcovinicio che vive a Domodossola e dice di avere assorbito lo spirito “stanziale e scrutatore” del doganiere. Gli piace immaginarsi coperto di con pelli di cervo e copricapi di corna di animali. I suoi quadri dove sfoggia grande sapienza di mélange di colori, sono un po’ Beuys, un po’ Duchamp. Conosce la storia e detesta la politica e i tempi in cui viviamo gli provocano solo noia e malumore.
Ai bastioni di Porta Venezia va in scena l’arte anti-sovranista, un migliaio di sacchi di caffè e cacao tutti provenienti dal Ghana, sotto i quali si sono spezzate le schiene eserciti di schiavi, hanno impacchettato quelli che un tempo erano i caselli daziari, simbolo del vecchio confine tra la città e la campagna. Ricuciti a patchwork l’effetto è un pugno nello stomaco. Impossibile non leggere l’installazione del giovane artista ghanese Ibrahim Mahama, sponsorizzata dalla Fondazione Nicola Trussardi, in chiave non politica. Già dal titolo “A friend” sembra rivolgersi ai suoi connazionali, agli immigrati respinti, come dire, vi faccio entrare io. E anche dalla porta principale. Impossibile non leggere il richiamo alla wrapping art dell’ artista americano Christo. Una versione terzomondista che strizza l’occhio a Salvini, il segnale è chiaro, è l’affermazione dell’arte senza frontiere. Pronto e smart lo street artist che a ridosso dell’opera ha montato la sua postazione: pennelli e make up per truccare i turisti da africani e mettergli addosso anche un sacco di iuta. Per un “indimenticabile” selfie.
Da spazio sperimentale è diventato di tendenza la Galleria Pack di viale Sabotino 22 (e grazie anche a lui è diventato un art district tutta la zona). Dopo aver ospitato i trofei di anatomia artistica di dell’ecletticissimo Giampiero Bodino, tra l’altro maestro di alta gioielleria e direttore creativo del gruppo Richemont, si cambia set ma non argomento.
Trasforma il corpo in “carne da cannone”, li fa dondolare dal soffitto sotto gli elmetti-paracadute poi, Oleg Kulik, artista moscovita, ci cammina dentro, fa sbattere gli uni contro gli altri provocando un sound quasi zen, in contrasto con la crudezza del messaggio. Anche la sua è un’arte anti-regime, quelle braccia modellate in argilla (plastificata) sbucano fuori con violenza dalle sbarre di una prigione, neanche troppo immaginaria, è quella dei lager in Siberia. La grata nella parte inferiore riprende un sole. Era l’unico raggio che entrava nelle vite dei prigionieri e loro se lo tatuavano sulla pelle, era il loro simbolo d’appartenenza. Come la lacrima tatuata sul volto.
Foto di Januaria Piromallo.
Instagram januaria _ piromallo