Era l’estate del 1998 e, per una strana congiuntura che non si sarebbe mai ripetuta, la mia Calabria era al centro del rap italiano. A Reggio ferveva l’attività di Cd Club, etichetta che avrebbe fatto esordire alcuni tra i futuri giganti della scena, tra cui i Cor Veleno dell’indimenticabile Primo Brown (R.i.p.). Nel Nord della regione, tra le splendide montagne della Sila, la riva del lago Ampollino stava invece per ospitare la quarta edizione di un festival dedicato proprio alla nostra musica in cui si sarebbero esibiti parecchi dei miti dell’underground che noi ragazzi avevamo visto finora soltanto nelle foto in bianco e nero nelle fanzine.

Treno e poi pullman. Auto per quelli un po’ più grandi e fortunati. Mezzi di fortuna per la maggior parte dei miei coetanei: da buona parte d’Italia si abbandonavano le spiagge e le città per il fresco delle “Alpi calabresi”. E lì poi sorgevano le tende, per le notti e i giorni di una piccola Woodstock in rima in cui tutti sapevamo che si sarebbe dormito decisamente poco. Per alcuni era il primo viaggio insieme alla fidanzatina, altri addirittura non avevano mai visto fare rap dal vivo se non nei cerchi sotto i portici. Per quasi tutti, ricordo, l’interesse principale sembrava essere non tanto il grande concerto che si teneva ogni sera, quanto i piccoli focolai di rime che si accendevano all’improvviso a qualsiasi ora, in mezzo al campeggio, e in cui i giovani leoni avevano per la prima volta modo di esprimersi accanto ai maestri già affermati e sfidarli più o meno apertamente.

Mentre dagli Stati Uniti, pianeta alieno, risuonava ancora l’eco dei colpi di pistola che avevano ucciso Biggie e Tupac, la nostra estate in montagna era tutta intorno allo scoprirci comunità e creare intorno all’Hip-Hop italiano una realtà sociale. “Sociale”, non “social”: internet era ancora una realtà per pochi, quindi i commenti e le condivisioni si scambiavano semplicemente intorno ai falò o alla luce del riflesso della luna sul lago. Una dimensione forse ingenua e stucchevole, sicuramente troppo idilliaca per durare. E, infatti, non durò.

Joe Cassano era senza dubbio il protagonista all’Ampollino nel 1998. Pur essendo poco più grande di noi, aveva già guadagnato l’affiliazione presso la Fce, leggendaria crew da cui nascevano gli stili e slang usati in quel periodo da tutti e a cui noi ragazzini guardavamo con un misto di ammirazione e terrore, come il gruppo di “mostri finali” che non dovevi mai sfidare perché avrebbero posto fine alla tua carriera prima ancora che iniziasse.

E Cassano, con le rime, ci sembrò un mostro davvero. Il flow “da americano”, il timbro acido e personalissimo, perfino i vestiti che indossava e il modo in cui si muoveva mentre sputava le barre erano qualcosa che noi pivellini non avevamo mai visto né immaginato. Ancora non esistevano gli smartphone, ma le poche telecamere portatili erano tutte puntate su di lui. Quando le riprese finivano e i cerchi si scioglievano, Joe si fermava spesso a parlare con me. Non stava sulle sue come i “vecchi”: dava consigli, raccontava aneddoti incredibili. Ci scambiammo perfino i numeri di telefono e ovviamente non si parlava ancora di cellulari: diedi il mio 0965 per ricevere in cambio uno 051, che dovrei aver ancora segnato su un’agendina in fondo a qualche cassetto.

Tutto quello che vi ho raccontato finora serve a spiegarvi perché il 3 aprile del 1999, data della morte prematura di Giovanni “Joe” Cassano, per me sarà sempre una data su cui riflettere. Non soltanto perché quel giorno se n’è andato un giovane artista, ma perché in un certo senso quella fine di millennio è anche la fine dell’epoca d’oro dei pionieri del rap, è la fine – personalmente e collettivamente – di una gioventù sognatrice ma ingenua e l’inizio di un’età adulta in cui bisogna tenere conto che qualcuno dei nostri può andarsene all’improvviso, per un motivo o per un altro. Una parabola triste e purtroppo necessaria, che era già iniziata il 1 novembre 1997 con la scomparsa di Massimo Colonna, in arte Crash Kid, uno dei maestri della break dance in Italia, e proseguita il 16 ottobre 1998 con quella di Giaime Fiumanò aka MC Giaime, il rapper “incompatibile con la roba commerciale” ancora oggi estremamente influente per tutto l’underground.

Nell’album postumo di Joe Cassano, pubblicato qualche mese dopo la sua morte dai miei concittadini di Cd Club a Reggio Calabria, si trovano numerosi tributi e collaborazioni, tra cui quella di un giovane Fabri Fibra ancora alle prime armi. E noialtri non lo sapevamo ancora, ma l’Hip-Hop italiano cominciava già a rigenerarsi. I semi gettati, ingenuamente e senza pensarci troppo, sulla riva del lago Ampollino sono oggi diventati un movimento gigantesco, con enormi problemi e contraddizioni, ma ormai imprescindibile per chi vuole raccontare la società italiana di questi anni 20 che ci aspettano dietro l’angolo. 3 aprile 1999 – 3 aprile 2019: Joe Cassano vive.

Immagine presa dalla pagina Facebook Joe Cassano
Community - Condividi gli articoli ed ottieni crediti
Articolo Precedente

Marco Greco, il disco d’esordio celebra il mistero dell’amore. Che la musica può afferrare

next
Articolo Successivo

Ricordare Kurt Cobain

next