di Nicola Donnantuoni*
Il reddito di cittadinanza, misura approvata nei giorni scorsi in via definitiva, non è un’indennità di disoccupazione e non dovrebbe essere analizzato come se lo fosse. Quest’ultima è del tutto indipendente dalle condizioni reddituali o patrimoniali del soggetto beneficiario, tanto che ad averne diritto sono anche i dirigenti, cioè i lavoratori subordinati comunemente situati al vertice della piramide sociale, sia per ricchezza che per prestigio professionale e considerazione. Unici requisiti per goderne sono la perdita involontaria del posto di lavoro e un certo montante di contribuzione versato negli ultimi quattro anni. Essa accompagna e sostiene qualunque lavoratore, anche il più ricco e il più brillante, lungo un periodo massimo di 24 mesi, che si ritiene congruo per la ricerca e l’ottenimento di una nuova occupazione.
Il reddito di cittadinanza approvato da questo governo, invece, è molto più simile al reddito minimo garantito, perché viene erogato (a determinate condizioni, piuttosto rigide) solo a chi è al di sotto di una determinata soglia di povertà: il suo destinatario è il singolo, preso in considerazione come individuo che vuole partecipare pienamente alla vita della comunità cui appartiene, non solo come lavoratore escluso dal mercato.
Vengono alla mente le parole della Carta di Nizza, divenuta vincolante dopo il trattato di Lisbona del 2009, secondo cui “al fine di lottare contro l’esclusione sociale e la povertà, l’Unione riconosce e rispetta il diritto all’assistenza sociale e abitativa volto a garantire un’esistenza dignitosa a tutti coloro che non dispongono di risorse sufficienti”.
Beneficiari del reddito di cittadinanza non sono i lavoratori che hanno perso il posto o che non trovano un lavoro consono alle proprie aspettative, non sono gli “schizzinosi” o i choosy di forneriana memoria: beneficiari sono gli ultimi e più derelitti cittadini del nostro Paese. Donne e uomini invisibili, totalmente dimenticati dalle istituzioni e dalla stessa comunità in cui vivono, che non possono trovare un lavoro (che altrimenti avrebbero già trovato) perché non hanno più alcuna competenza da offrire e perché, prima ancora, vivono condizioni personali di estremo e straziante disagio, che non consentono loro nemmeno di affrontare un colloquio conoscitivo.
Un ruolo fondamentale, allora, avrebbero dovuto svolgere le figure dei cosiddetti navigator, che non possono in alcun modo essere selezionati come dei comuni funzionari dei centri per l’impiego: non abbiamo bisogno di ulteriori burocrati, ma di professionisti dotati di competenze interdisciplinari e, soprattutto, di grande sensibilità umana, esperti di psicologia, sociologia, vere e proprie “bussole umane” capaci non tanto di ricercare all’interno di un database il lavoro più adatto al beneficiario, ma di ricollocare le persone innanzitutto all’interno della compagine sociale. E, forse, anche di aiutare le persone a ritrovare il centro di se stesse.
Stupisce, in tale contesto, l’atteggiamento delle Regioni e l’intesa recentemente raggiunta con il governo: da un lato è stato dimezzato il numero dei navigator, che sono passati da 6mila a 3mila unità, dall’altro si sono ascoltate parole che, a mio avviso, lasciano sospettare il consueto, futuro rammarico per un’occasione nuovamente perduta. La coordinatrice degli assessori al lavoro delle Regioni, Cristina Grieco, pare abbia dichiarato che navigator e lavoratori dei centri per l’impiego “non sono professioni sovrapponibili. Faranno assistenza tecnica. Sono collaboratori precari, difficile che saranno stabilizzati. Si faranno un’esperienza e poi faranno il concorso”.
Se il ruolo del navigator verrà relegato a quello di un mero assistente tecnico (per assistere quali “tecnicismi” resta poi un mistero), se davvero saranno visti e considerati come dei collaboratori precari che si faranno un’esperienza e poi chissà, forse il solito “concorso”, allora ha ragione il prof. Michele Tiraboschi: il reddito di cittadinanza potrebbe incontrare qualche difficoltà, perché affideremo “compiti del tutto inutili a figure che dovevano essere centrali”.
*Avvocato giuslavorista, socio AGI – Avvocati Giuslavoristi Italiani, nato e cresciuto a Milano, mi occupo da sempre di Diritto del Lavoro. Cerco, per quanto mi è possibile, di esercitare la professione nel rispetto di un significato etico e il Diritto del Lavoro, in questo, mi è di aiuto: i suoi protagonisti sono soggetti appassionati e le loro passioni sono rivolte alla ricerca di ciò che è giusto.