La protesta cittadina di ieri, davanti al centro di accoglienza di Torre Maura, dove sarebbero dovute essere accolte una ventina di famiglie rom, ha fatto tornare alla mente le barricate della periferia romana degli anni Novanta quando, di fronte alla prospettiva di avere un campo rom sotto casa, la gente delle borgate scendeva in piazza bloccando le strade e incendiando copertoni. L’episodio ha fatto rivivere fantasmi di una Roma razzista, intollerante e violenta. La decisione del Campidoglio, avvenuta nella notte, di ricollocare le famiglie rom altrove, poi, ha sancito la sconfitta totale di tutte le parti in causa. I media locali e nazionali si sono soffermati a lungo sulle proteste, le minacce, le prese di posizione, cercando di approfondire il livello di intolleranza riscontrato nei margini delle città. Nessuno però è riuscito ad andare oltre, cercando di capire la genesi dell’evento e le reali responsabilità.
Tutto nasce da una domanda: al di là delle strumentalizzazioni dei protagonisti della protesta, i cittadini di Torre Maura – ovvero gli abitanti dell’estrema periferia romana – non vogliono vicino alle loro case i rom o non vogliono i campi rom? Alla prima questione è facile rispondere numeri alla mano: su tutto il quadrante est della Capitale, dove insiste anche Torre Maura, il tasso di residenti stranieri è molto alto e altrettanto elevato è quello delle famiglie rom che da decenni vivono, in una convivenza pacifica, in case private o in alloggi dell’edilizia residenziale pubblica. Quindi la protesta era contro la nascita di un campo rom? Ma allora cos’è il centro di via Codirossoni dove i rom sarebbero dovuti essere accolti?
Occorre fare un passo indietro di un paio di anni quando, nel maggio 2017, la sindaca Virginia Raggi ha presentato il Piano rom della Capitale, il “capolavoro da applausi” secondo la citazione di Beppe Grillo. In quell’occasione la sindaca annunciò la chiusura dei campi rom della Capitale attraverso il solo utilizzo dei fondi europei e “la fine della mangiatoia”. Dopo il fallimento della chiusura del Camping River – con il successivo esodo di 250 persone sparpagliate sul territorio cittadino – il Comune di Roma è sembrato cadere nella tentazione di invertire la rotta perché alla fine è sicuramente più facile, come fatto in passato, aprire nuovi campi piuttosto che chiuderli. Quando si parla di campi rom occorre precisare che ci sono quelli tradizionali, rappresentati da container messi in fila su aree lontane dal centro urbano, e quelli di nuova generazione, denominati “centri di raccolta rom” ideati quando era sindaco Gianni Alemanno, rappresentati da strutture in muratura riadattate per un’accoglienza riservata esclusivamente a persone rom. Il sindaco di Alleanza Nazionale ne realizzò in via Amarilli, in via Salaria, in via Visso. Poi l’inchiesta Mafia Capitale spazzò tutto via, scoprendo i grossi guadagni che la loro gestione comportava e colpendo le cooperative che le gestivano. Tra quelle sfiorate da Mafia Capitale c’è la Cooperativa Tre Fontane – colpita dall’interdittiva del prefetto Gabrielli – che faceva parte del gruppo La Cascina, cooperativa “bianca” che nel corso dell’inchiesta romana aveva visto quattro manager arrestati per corruzione.
Il 29 maggio scorso, a quasi un anno esatto dalla presentazione del Piano con il quale i campi romani si sarebbero superati, il Comune di Roma, se con una mano si dice impegnata con fondi europei a superare gli insediamenti di La Barbuta e Monachina, dall’altra presenta una gara per “per il reperimento e gestione di una struttura di accoglienza in favore di persone rom” per un impegno di spesa superiore a 1,2 milioni di euro di fondi comunali. La struttura è pensata per essere un “centro di raccolta rom” visto che è riservata a “gruppi di origine rom in particolare a coloro che provengono da sgomberi di insediamenti spontanei”. Viene prevista l’accoglienza di 100 persone per una durata massima di sei mesi. A Roma, lo sappiamo, la temporaneità è sempre l’anticamera di qualcosa che si trasforma in definitivo. E soprattutto ha un costo. La durata del contratto è di 27 mesi per un costo pro capite mensile vicino ai 450 euro, più di 2mila euro a famiglia.
Il 13 dicembre 2018 viene nominata la Commissione chiamata a valutare l’unica offerta pervenuta, quella della Cooperativa Tre Fontane, e ieri la struttura di Codirossoni viene aperta. Probabilmente la popolazione di Torre Maura, ma anche quella di Roma, non è razzista e non è neanche stufa dei rom. È stanca dei “campi rom” o dei “centri di raccolta rom”, come vogliamo chiamarli. Ma anzitutto non ce la fa più di promesse non mantenute e di amministratori che, sulla “questione rom” altro non fanno che ripetere gli stessi errori del passato, quello più buio, quello di Gianni Alemanno.