Il giorno dopo la strage di via D’Amelio, l’allora procuratore capo di Caltanissetta, Gianni Tinebra, chiamò l’allora capo dei servizi segreti Bruno Contrada per chiedergli di “dare una mano alle indagini sul botto” che uccise Paolo Borsellino e cinque uomini della scorta. A raccontarlo in aula, al processo per il depistaggio sulle indagini sulla strage, è lo stesso Contrada, 88 anni, sentito dalla procura come teste assistito da un legale. Alla sbarra ci sono tre poliziotti, Mario Bo, Michele Ribaudo e Fabrizio Mattei, che facevano parte del gruppo investigativo Falcone e Borsellino guidato da Arnaldo La Barbera, l’ex dirigente della Squadra mobile di Palermo.
“Ho avuto una conversazione con il procuratore di Caltanissetta Tinebra il 20 luglio 1992 – ha detto Contrada – lui mi chiese di contribuire alle indagini, ma tra le varie cose che gli prospettai e le varie obiezioni che avevo fatto alla sua richiesta di collaborare alle indagini, la cosa principale era che non ero più nella polizia giudiziaria. Avevo anche obiettato che non avrei intrapreso nessuna attività sul piano informativo, perché quello era il mio compito, se non d’intesa con gli organi di polizia giudiziaria interessati, sia della Polizia che dei Carabinieri”. A fare da tramite tra il procuratore e il numero tre dei servizi fu l’allora capo della polizia Vincenzo Parisi. “L’incontro con Tinebra fu il giorno dopo la strage e non dopo mesi – dice Contrada – È chiaro che era una vicenda complicata e serviva un’indagine a largo respiro”. Ma Contrada spiega anche di non conoscere che tipo di rapporto ci fosse tra Tinebra e Parisi. “Non so se è stato Parisi a dire a Tinebra ‘se hai bisogno di notizie rivolgiti a Contradà, oppure se fu Tinebra a chiedere a Parisi ‘ho bisogno di un supporto a Palermo’ e Parisi gli disse di incontrare me. Questo non lo so. So solo che il genero del capo della Polizia Costa mi fece sapere che Parisi disse che era opportuno che io andassi a parlare con Tinebra che mi aspettava alla Procura generale di Palermo”. Dopo l’incontro con Tinebra, Contrada incontrò i vertici di Polizia e Carabinieri a Palermo. “Infatti ci fu l’incontro, per la Polizia, con l’allora dirigente della Squadra La Barbera e successivamente l’incontro con il maggiore Obinu dei Carabinieri”, racconta ancora Contrada. “A farmi il nome di Obinu fa il generale Antonio Subranni che conoscevo benissimo”.
“A La Barbera – ha spiegato l’ex 007 al pm Stefano Luciani – dissi che non avrei fatto nulla per accavallare le indagini dissi che avrei scolto un’attività che non potesse disturbare le loro indagini, gli spiegai quello che noi come Servizi segreti potevamo fare per contribuire, nei limiti del possibile, alle indagini sulla strage”. L’ex superpoliziotto ha sostenuto di non aver mai saputo “nei dieci anni che ho trascorso al Sisde a Roma che Arnaldo La Barbera fosse un agente dei Servizi segreti“. Poi, Contrada ha spiegato, nel corso del controesame, che “La Barbera aveva uno ‘sponsor’ ai Servizi segreti ed era il Prefetto Luigi De Sena – dice -Era stato De Sena, che era suo amico, che lo fece trasferire da Venezia a Palermo. Era il suo sponsor”. Il Prefetto De Sena, deceduto, tra il 1985 al 1992 è stato assegnato, fuori ruolo, al Sisde, in qualità di Direttore dell’Unità Centrale Informativa.
Nel 2007, invece, Contrada fu condannato per concorso esterno a Cosa nostra. Una condanna oggetto di una la sentenza della Cedu nel 2015: secondo i giudici di Strasburgo l’investigatore non andava condannato per concorso esterno perché i fatti a lui contestati sono precedenti al 1994, anno in cui quel reato viene per la volta definito in modo chiaro. Ovviamente la Cedu non è entrata nel merito delle contestazioni di Contrada – che rimangono confermate – ma due anni dopo la Cassazione ha annullato gli effetti di quella condanna. “Io sono stato condannato per sentenza ma la corte di Cassazione ha dichiarato la sentenza improduttiva di effetti penali, quindi non sono condannato”, ha specificato l’anziano ex investigatore. Raccontando di essersi recato in procura a Caltanissetta prima di andare in carcere per dununciare un tentativo di depistaggio sulle indagini di via D’Amelio. “Nel marzo 2007, poco prima di entrare nel carcere di Santa Maria a Capua a Vetere per espiare la pena per la condanna definitiva – ha sostenuto – andai alla Procura di Caltanissetta, accompagnato dai miei legali, per presentare un esposto querela di circa 80 pagine, con un centinaio di allegati. E accusai criminali mafiosi pentiti, ufficiali dei carabinieri, funzionari di polizia, facendo nomi e cognomi. È tutto documentato. In quelle carte si provava in maniera inconfutabile che c’era stato un tentativi di depistaggio nelle indagini sulla strage di via D’Amelio. Ma tutto è stato archiviato, per vari motivi tranne un filone di questa inchiesta che era seguita dal pm Luca Tescaroli, che fu poi inviato a Catania”.
A proposito del falso pentito Vincenzo Scarantino, invece, dopo la sua deposizione Contrada ha spiegato ai giornalisti: “Dopo mezz’ora di conversazione mi sarei convinto che Scarantino non era un esponente di mafia tale da avere una parte in una strage come quella di Borsellino. Ma non perché io sia più bravo degli altri poliziotti, ma avevo più esperienza e conoscenza sui fatti di mafia. Puntai subito sui Madonia perché Francesco Madonia aveva un covo in via d’Amelio scoperto dalla polizia. Potevano semplicemente affacciarsi e controllare Borsellino mentre andava dalla madre, gli orari, quando entrava e quando usciva”.
A inizio udienza, l’avvocato Giuseppe Seminara, che difende due dei tre poliziotti sotto processo, ha chiesto il deposito di eventuali atti acquisiti “che riguardano i Servizi segreti” e “relativi alle stragi mafiose del 1992”. “Colgo l’occasione per sollecitare la procura di depositare eventuali atti che provengono dai Servizi segreti – dice il legale – perché è ipotizzabile che ci sia stata attività nei confronti dei servizi segreti per questa strage o per la strage di Capaci e che in tale ambito la procura abbia ottenuto della documentazione utilizzando i canali istituzionali relativa ai servizi segreti”. Il pm Stefano Luciani non si è opposto anche se parla di una richiesta “ultronea”.