L’assassino di Stefano Leo, 33enne ucciso a Torino il 23 febbraio scorso, avrebbe dovuto essere in carcere. È la conclusione a cui è giunta ieri la procura torinese dopo la notizia – anticipata dalla Stampa nell’edizione del 4 aprile – della condanna di Said Mechaquat a un anno e sei mesi per maltrattamenti e lesioni aggravate ai danni dell’ex compagna. Il tribunale di Torino lo aveva condannato il 20 giugno 2016 e dalle motivazioni della sentenza emergeva con chiarezza la personalità del 27enne italiano di origini marocchine che domenica si è consegnato ai carabinieri confessando l’omicidio.
Dalle prime notizie sembrava che il processo di secondo grado non fosse stato ancora fissato. La parte civile, la sua ex compagna, non aveva più avuto notizie. Dalle verifiche effettuate dalla procura, però, è emerso altro: il 18 aprile 2018 la Corte d’appello di Torino ha ritenuto inammissibile il ricorso presentato dall’avvocato di Mechaquat e a quel punto la sentenza doveva essere eseguita a breve. La Corte avrebbe dovuto rimandare gli atti all’ufficio esecuzione della procura affinché facesse arrestare il giovane. Nonostante la pena lieve, diciotto mesi, Mechaquat non aveva ottenuto la sospensione condizionale perché aveva alcuni precedenti (da minore ha ottenuto il perdono giudiziale per una rapina e da poco maggiorenne ha patteggiato 10 mesi per resistenza a pubblico ufficiale) e perché i suoi maltrattamenti riguardavano anche un minorenne, il figlio, elemento che impedisce sospensioni o misure alternative alla detenzione. La procura ha dato esecuzione alla sentenza ieri, con Mechaquat già in carcere dopo il fermo di domenica sera e la convalida – giunta mercoledì – stabilita dal tribunale che ha disposto la custodia cautelare in carcere.
Cosa sia esattamente successo un anno fa negli uffici del Palazzo di giustizia resta un mistero. Il presidente Edmondo Barelli Innocenti ha disposto indagini interne. È noto, invece, l’imbuto che si crea in questa corte, dove arrivano migliaia di fascicoli e dove il personale è sempre meno, incapace di far fronte alla mole di lavoro. Una giustificazione che, però, non può bastare alla famiglia Leo. “Questa purtroppo è la giustizia italiana, che abusa della carcerazione preventiva e non riesce più ad assicurare la certezza della pena – ha dichiarato ieri la capogruppo di Forza Italia al Senato, Anna Maria Bernini – Se è vero che Said Mechaquat non è stato arrestato a causa di un ritardo nella trasmissione dei documenti dalla Corte d’appello alla procura presso il tribunale, siamo di fronte a un caso assurdo, sconcertante e gravissimo sul quale mi auguro venga ordinata un’immediata ispezione da parte del ministero”.