“Recenti studi hanno verificato come sulle bucce delle mele comunemente in vendita presso i negozi ed i supermercati italiani si trovino tantissimi pesticidi (più di 10) utilizzati di frequente. I risultati dimostrano il fatto che in nessun caso vengono superati i limiti massimi previsti per legge per la presenza del singolo pesticida, ma la presenza di molteplici sostanze chimiche può portare al fenomeno del cosiddetto multiresiduo. [….] Il fenomeno necessita di un deciso intervento del Ministero per le politiche agricole, che vada a normare tale aspetto, altrimenti sottovalutato. [….] Presenteremo un esposto in Procura della Repubblica al fine che vengano accertate (sic!) eventuali violazioni.”
Così una nota di recente diffusa da una nota associazione consumeristica.
Se “il fenomeno necessita di un deciso intervento del Ministero per le politiche agricole”, non è chiarissimo il motivo per cui si tiri in ballo, ipso facto, la Magistratura penale; specie se si dà atto che “in nessun caso vengono superati i limiti massimi previsti per legge”, nonché alla stregua delle brevi osservazioni in diritto che seguiranno.
E’ il solito riflesso di buttare la palla in Procura, praticamente alla cieca. Sindrome che non è necessariamente foriera di magnifiche sorti e progressive, per dirla in maniera delicata, per la tutela penale di beni giuridici seri, come, appunto, l’ambiente, la sicurezza alimentare e la salute pubblica; specie dove lo stato dell’amministrazione della giustizia è quello di questo Paese.
La notizia, però, ha il merito di provare a ridestare un minimo un’opinione pubblica che, su questo come su temi analoghi, tende naturalmente alla narcolessia; e offre lo spunto per un sommario (e, in questa sede, fatalmente lacunoso) riepilogo dello stato dell’arte del quadro normativo di riferimento in questa materia.
Il testo normativo centrale è il decreto legislativo 14 agosto 2012, n. 150, in materia di “Attuazione della direttiva 2009/128/CE che istituisce un quadro per l’azione comunitaria ai fini dell’utilizzo sostenibile dei pesticidi”. L’articolato in questione muove dalle finalità di: “a) ridurre i rischi e gli impatti sulla salute umana, sull’ambiente e sulla biodiversità; b) promuovere l’applicazione della difesa integrata e di approcci alternativi o metodi non chimici” (art. 1). Significativo anche l’art. 2, poi, l’espresso riferimento al principio giuridico ormai consolidato come nodale in questi campi: “le disposizioni del presente decreto si applicano tenendo conto del principio di precauzione”.
Quanto all’apparato sanzionatorio, a parte la consueta clausola di riserva penale (“salvo che il fatto costituisca reato”), la legge non prevede autonome sanzioni penali, ma solo amministrative.
Stesso discorso vale per il decreto legislativo 17 aprile 2014, n. 69, “Disciplina sanzionatoria per la violazione delle disposizioni del regolamento (CE) n. 1107/2009 relativo all’immissione sul mercato dei prodotti fitosanitari”: clausola di riserva penale e nessuna figura di reato disciplinata, dunque nessuna autonoma sanzione penale. Se, però, utilizzo e immissione sul mercato dei pesticidi non godono, in sé, di copertura penale, ciò non toglie che l’uso, e soprattutto l’abuso, delle sostanze in questione possano ben produrre conseguenze, queste sì, di rilievo penale.
Ed è facilmente deducibile che l’ambito di elezione di questi eventi sia proprio la sicurezza alimentare.
Per esempio, all’interno di quella che, nonostante la sua veneranda età, resta una delle leggi fondamentali in materia di tutela penale dell’alimentazione, la n. 283\1962, più precisamente all’art. 5, si statuisce che “è vietato impiegare nella preparazione di alimenti o bevande, vendere, detenere per vendere o somministrare come mercede ai propri dipendenti, o comunque distribuire per il consumo sostanze alimentari [….] che contengano residui di prodotti, usati in agricoltura per la protezione delle piante e a difesa delle sostanze alimentari immagazzinate, tossici per l’uomo” (lett. h).
La rilevanza penale della condotta, però, è subordinata alla violazione, da parte dell’autore, dell’ordinanza con cui il ministro per la Sanità (all’epoca) “stabilisce per ciascun prodotto, autorizzato all’impiego per tali scopi, i limiti di tolleranza…”. Anche da quest’ultima previsione, però, emerge chiaramente quello che è il vero buco nero dell’attuale normativa, nazionale e unionale, in materia di residui di fitofarmaci: l’assenza di qualsiasi considerazione del “multiresiduo”, il noto “effetto cocktail” tra diverse sostanze che possono ben ritrovarsi sullo stesso prodotto alimentare, pur singolarmente a norma di legge.
Situazione icasticamente raffigurata dall’ormai celebre peperone “arricchito” da 25 diversi pesticidi, analizzato nel dossier “Stop pesticidi” di Legambiente, di poche settimane fa. Una ricerca che ha rinvenuto solo l’1,3% di campioni alimentari fuorilegge; ma anche il 34% dei campioni regolari contaminato da uno o più residui di fungicidi e insetticidi. In una situazione del genere, è chiaro che, più che la Magistratura – che deve applicare le leggi che ci sono – dovrebbe attivarsi il Legislatore, che le leggi può (e, in alcuni casi, deve) cambiarle. Specie quando quelle esistenti sono di dubbia compatibilità con il citato principio di precauzione.
Recenti pronunciamenti in tal senso di un ramo del Parlamento sono fonte di controllato sollievo. La scadenza normativa più significativa, tuttavia, è la revisione del Piano d’azione nazionale per l’uso sostenibile dei pesticidi (Pan). Sul punto, la Camera, nella stessa mozione “Muroni \ Severini”, chiede, tra l’altro, al governo di “assumere iniziative normative nell’ambito della revisione del Pan che stabiliscano le distanze minime di sicurezza dalle abitazioni, dai confini privati e dalle coltivazioni biologiche per evitare la contaminazione da pesticidi”.
Ma qui i motivi di sollievo sono in drastico calo.