Il padrino (1972) - 2/6
Se William Shakespeare fosse nato a Corleone, nei teatri elisabettiani avremmo visto Don Vito al posto del Re Lear. Il paragone è azzardato, folle, anacronistico. Ma se mai c’è stato un film capace riportare sullo schermo quell’intimo e magnifico senso di tragedia, questo è Il Padrino. Tratta dall’omonimo bestseller di Mario Puzo, la pellicola è attraversata dal sangue e dalle gelosie di una Famiglia che diventa mondo. Un piccolo cosmo deviato, fatto di regole intime e ancestrali. E proprio qui sta la grandezza di Coppola, nell’aver toccato un archetipo. Nell’aver accarezzato emozioni e storie tanto intime da aggrapparsi allo stomaco dello spettatore. Sensazioni viscerali, di quelle che senti e respiri come fossero tue pur essendo distanti anni luce dalla tua vita o dai tuoi valori. Vendetta, potere, affetto e rancore si proiettano così in quadri di luce e ombre, figli della sontuosa fotografia di Gordon Willis e dalle musiche di Nino Rota. Il Padrino sfiora l’epica, fonda un genere (pur senza dimenticare il precedente La fratellanza di Martin Ritt) e trova in Marlon Brando e Al Pacino due maschere immortali. Due attori che la produzione neppure gradiva, almeno all’inizio, e il cui ingaggio costò quasi il licenziamento all’allora semisconosciuto cineasta di Detroit. Di Brando, infatti, si temevano gli atteggiamenti da divo, mentre Pacino non convinceva né per il curriculum né per la bassa statura.
Curiosità: Pur essendo considerato il capostipite dei mafia movie, i termini “mafia” e “Cosa nostra” non ricorrono mai nella sceneggiatura de Il Padrino. Queste parole furono cancellate a causa delle copiose minacce fatte dal boss Joseph Colombo alla Paramount.