Qualche tempo fa c’è stata la gita di fine anno di una delle mie figlie, forse il primo vero momento in cui si assapora la libertà, una parentesi di cielo in cui gli adulti vengono sproporzionatamente ridotti di numero e il controllo sui ragazzi limitato allo stretto necessario. La gita è un po’ come allungare la punta del piede a ridosso di un fondale per captarne le profondità, e capire quanto più in giù ci si possa spingere.
Sapevo che durante le 12 ore in cui i ragazzi erano via si trovavano in uno scomparto stagno intangibile, come sotto il Mantello dell’Invisibilità di Harry Potter. In uno spazio temporale lontano, dai contorni sbiaditi. Non ero mai stata nella località che avrebbero visitato loro, non potevo tracciare un’immagine concreta nella mia mente. E non lo volevo neppure.
Poi hanno cominciato ad arrivare le foto. La mamma di un bambino era con loro e ha iniziato a postare il reportage sulla scolaresca. Foto di gruppo in pullman. In sosta merenda. Gruppo con guida turistica. In pausa pranzo. Mentre giocano, si rilassano e così via, fino a concludersi in una concitata telecronaca sugli ultimi metri del pullman e l’esatta localizzazione, onde conoscere con esattezza a che ora il mezzo avrebbe varcato il traguardo sulla piazzola del parcheggio. Nel vedere, a tradimento, quelle foto ho provato fastidio, mi sono sentita come un guardone nell’atto di spiare l’intimità di qualcun altro. Stavamo tutti rubando qualcosa che non ci apparteneva, i ricordi ancora freschi dei nostri figli. E noi, ancor prima che fossero loro a potercele raccontare, ci appropriavamo di quelle immagini.
Viviamo nell’epoca della bulimia visiva, ci nutriamo delle storie e soprattutto del visivo degli altri (che di rimando sono ben contenti di offrircelo) ma senza l’anima per poterlo vivere o capire.
Una volta svelato il mistero di un luogo nel quale non siamo stati ma di cui abbiamo visto le foto, alla maggior parte non interessa più ascoltarne il racconto, intravedere i profumi o le sottotracce. Quel primo impatto, che svela tutto, è già sufficiente.
Oltre all’immagine che spoglia la realtà della storia e della poesia c’è anche, da parte dei genitori (ma non solo), l’ossessione della rintracciabilità. Quando rispondono al telefono, la prima cosa che gli si chiede è: “Dove sei?” Si sonda ogni piccolo spostamento, quasi avessero un Gps perennemente cucito addosso, trasformazione in veste genitoriale del Big Brother.
Quando sono in vacanza adoro non essere reperibile, far perdere le tracce, sapermi un puntino infinitesimale che sparisce dentro la geografia del pianeta, tra volti dai tratti sconosciuti. Non ho bisogno di segnalare all’universo digitale che sto partendo dall’aeroporto di X verso Y. Faccio come Keyser Söze, come niente sparisco. Logicamente ogni tanto riaffioro, coi miei tempi, per rassicurare a casa che tutto va bene… Ma poi, perché mai non dovrebbe andare bene?
Per giustificare questa opprimente richiesta di individuazione, si usa spesso la scusa da mania del complotto, che predica quanto tutto potrebbe andare storto. Manco fossimo in procinto di scalare il muro di Gaza o partire a remi per la traversata dell’Atlantico. Ci si mobilita quotidianamente per rasserenare gli animi dei famigliari restati altrove, scambiando il voyeurismo per opera di carità.
Nel vedere le foto di mia figlia ho capito che pochi di loro, in futuro, conosceranno quel sussulto elettrico carico di adrenalina chiamato libertà. Ci sarà sempre qualcuno a cui rendere conto, qualcuno che testimonierà cosa stiano facendo, un cellulare pronto a scattare foto, rubando quel poco di privato che rimane. In pochi proveranno la sensazione di perdersi, di non esistere più, fondersi in un luogo sconosciuto, annusare il profumo di una strada della quale non si conosce la traiettoria, aprire porte il cui interno si ignora. Staccarsi dal nostro vissuto, da chi siamo, costruirci almeno per un po’ una nuova carta d’identità.
Soffocando questa indipendenza li priviamo anche della dote di arrangiarsi, di cavarsela da soli, la responsabilità di gestire la propria solitudine, i propri ritmi e doveri. La possibilità di sbagliare e ritararsi la volta dopo. Coi social i genitori stanno avanzando la pretesa egoistica di far parte sotto ogni aspetto della vita dei loro figli, anche quando non ci sono, anche quando non sono graditi. Di guardare coi loro occhi, di vivere la loro vita di riflesso. Non si rendono conto che in questo modo gli tolgono la libertà di diventare grandi per conto proprio.