Il primo caso è scoppiato in Sri Lanka, dove nel 2008 l’allora presidente Mahinda Rajapaksa avviò la costruzione del nuovo porto di Hambantota. La città si trova nella punta meridionale dell’isola e oggi dovrebbe essere uno degli snodi della nuova via della Seta marittima. Il prezzo dell’operazione, stimato in circa 360 milioni di dollari, è stato finanziato per oltre l’80 per cento proprio dalla Cina. Ma i risultati non sono stati quelli sperati: come riporta il New York Times, nel 2012 il porto ha intercettato solo 34 navi rispetto alle decine di migliaia che affollano l’Oceano Indiano. A niente sono serviti gli sforzi del nuovo presidente Sirisena: per far fronte ai debiti, il suo governo è stato costretto nel 2017 a cedere la gestione della struttura alla stessa Cina per 99 anni. Una situazione che si aggiunge agli altri grandi progetti costruiti con prestiti cinesi nella zona di Hambantota: uno stadio di cricket con più posti rispetto alla popolazione della capitale del distretto, un aeroporto internazionale, un’autostrada ora attraversata anche dagli elefanti che popolano la giungla circostante.

Tutti investimenti che hanno contribuito a far triplicare il debito pubblico dello Sri Lanka durante il governo di Rajapaksa, considerato molto vicino a Pechino. Secondo alcune stime, il debito del Paese nei confronti della Cina è arrivato a circa 5 miliardi ed è destinato ad aumentare nei prossimi anni. Una situazione di subalternità che rischia di avere anche ricadute militari, vista la continua militarizzazione dell’area nel Mare cinese meridionale. Il porto di Hambantota che ora è nelle mani del Dragone, infatti, non può essere utilizzato per scopi bellici a meno che non venga concesso il permesso dal governo centrale (per ora contrario). Ma i governi cambiano, e per le prossime elezioni è già sceso in campo Gotabaya Rajapaksa, fratello di quel presidente Mahinda Rajapaksa che ha orchestrato gli affari con la Cina sin dal suo insediamento.

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