Valigia di Cartone

“Addio, Italia dei caporali che chiama tutti stranieri. Ora ho un biglietto per Londra, ma mi vergogno”

Partiti in cerca di un lavoro. Gli emigranti esistono anche in Italia. Vanno verso il nord del Paese, verso l’Europa, verso l’America. Lasciano la famiglia come a inizio Novecento, con una ideale “valigia di cartone”. Ecco alcune delle loro storie raccontate a valigiadicartone.ilfatto@gmail.com

Da mesi, forse anni provo sempre la stessa sensazione di smarrimento.
Una carriera universitaria, anzi due, interrotte nell’illusione di poter essere in grado di reggere contemporaneamente studio e lavoro.
In una città del centro Italia piuttosto distante dalla – non più – mia Taranto.
Mai avuto rimpianti per questo.
Solo pianti, quelli veri, il più delle volte in ascensore, poco dopo aver salutato i miei genitori.
Lacrime che con il passare del tempo sono diventate sempre più importanti, a volte silenziose, inghiottite nell’animo e mai digerite.
La mia famiglia diventava sempre meno numerosa, prima la morte di mio fratello e dopo poco anche quella di mio padre.
Sempre nello stesso ascensore il doloroso rito, sempre pronto a rientrare in quella piccola città di provincia che da vent’anni mi “ospita”.
Un piccolo paesino a metà strada tra Pesaro e Urbino.
Quel territorio che, sembra un secolo ormai, era definito dai più provincia rossa.
Sono in pochi a perdere l’occasione di ricordarmelo che sono un “ospite”.
Sempre la stessa storia quando apro bocca, il mio interlocutore non fa sconti, non mostra imbarazzo parte all’attacco con la stessa cantilena: “…ma te non sei di qui..”
Io sono io e voi non siete un … avvertiva il Marchese del Grillo, il senso per me è il medesimo.
Da vent’anni più o meno.
Col passare del tempo sempre più boria nei miei interlocutori, mai come dicevo imbarazzo, la cantilena è sempre dietro l’angolo, puntuale.
Il ragazzino, lo “studente” nel frattempo è diventato uomo, si è fatto le ossa, ha lavorato con regolarità, la stessa più o meno dei contributi che gli sono stati versati nel corso degli anni dai tanti imprenditori “perbene”.
Gli stessi definiti “operosi” dai benpensanti.
Si proprio quelli che negli anni del “boom economico” da piccoli artigiani contadini part-time sono diventati importati realtà multinazionali.
Lavoro, molto lavoro e molto “nero” e un fisco che per anni si accontentava di dichiarazioni fatte sulla presunzione del reddito.
Qualcuno qui ama raccontarlo senza imbarazzo!
Sempre gli stessi che hanno attratto prima le migrazioni interne e in un secondo momento quelle provenienti dalle regioni balcaniche negli anni novanta.
Oggi quella manodopera ha messo su famiglia, si è indebitata per comprare casa e manda i figli a scuola e all’università ma sta comunque sulle “palle” a molti.
E poco importa se votano tutti insieme allegramente Lega, en è de machè (non sono di qui), e tanto basta!
Forza lavoro naturalmente considerata di serie b.
Lo vivo sulla mia pelle da anni.
E l’aria che respiro peggiora di giorno in giorno, il linguaggio quotidiano è sempre più violento e aggressivo.
Giudizi taglienti spesso razzisti, cinismo esagerato e intolleranza diffusa.
Ho lavorato per molti anni per una coop veneta ma non ho mai sentito dare del “negro” con tanta naturalezza e disinvoltura.
Qui dalle mie parti, si fa per dire naturalmente, si nascondono dietro il dialetto. Pare che “nègr” sia un espressione dialettale.
Ma chi se ne importa del dialetto, a me fa schifo comunque e questa espressione offende anche me, anche se ho la pelle bianca e tecnicamente non mi riguarda.
Ma mi riguarda eccome, ci riguarda e dovrebbe interessare tutti.
Ma invece no.
Pochi giorni fa ho commesso l’ennesimo errore.
Non lavorando regolarmente da settembre, ho accettato un lavoro dai moderni caporali 2.0, le agenzie di lavoro interinale.
Hanno il potere di decidere chi e quando può cominciare a lavorare.
Per 14 giorni ho lavorato in “somministrazione” presso una piccola azienda del territorio (per non subire rappresaglie di nessun genere non scenderò nel dettaglio) tra le bestemmie del padrone come amava definirsi, e le offese verbali del tipo: “Non sapete fare un c…o, siete un branco di tonti , muovetevi state qui solo a perdere tempo” e tanto altro.
Mai un sorso d’acqua, solo continue umiliazioni.
Poi un giorno, l’ultimo per la precisione, un collega più giovane di me scoppia.
Diventa tutto rosso in viso e va in fretta nello spogliatoio, probabilmente piange.
A lui era solo concesso solo sbollire la rabbia, non aveva scelta con due figli.
È rientrato in postazione e ha continuato a lavorare, con gli occhi rossi e la testa bassa.
Probabilmente anch’io, mi sono ripetuto e continuo ripetermi da giorni, avrei fatto la stessa cosa.
Ma sono fortunato, non ho figli.
IO SONO ANDATO VIA alla fine del turno della mattina.
A nulla è servito motivare le mie ragioni, “in primis” alla moglie padroncina (il capo reparto, credo) “ in secundis” al potente CAPORALE.
Risultato: delle quasi 90 ore fatte (avevo l’ordine di presentarmi in postazione almeno 40 minuti prima rispetto all’orario convenuto) me ne sono state pagate solo 77.
Il resto è mancia per il mio “padrone”….ma chi se frega.
Come un moderno schiavo ho pagato il prezzo per liberarmi da quell’incubo.
Il sistema impone ormai di presentare le dimissioni telematiche che hanno un costo tra i 15 e 20 euro, se a farle è un sindacato, come da convenzione nazionale.
Diversamente, se come me hai dimestichezza col pc e hai un pin dispositivo con l’Inps o altro ente accreditato, puoi evitare di versare l’obolo proprio a chi ti ha girato le spalle.
Si proprio quei sindacati che da anni nascondono la testa sotto la sabbia.
Quelli che ormai sono incapaci di difendere i lavoratori, troppo impegnati a difendere il loro “status quo” quando va bene.
E si perché quando va male sono in vacanza a spese delle stesse sigle sindacali che si guardano bene da denunciare simili abusi.
Poi per fortuna arrivano gli amici, quelli che hanno avuto il coraggio di fare la valigia e trasferirsi a Londra.
Sono sinceri, sarai considerato comunque uno STRANIERO, avvertono.
Ma con me questo avvertimento non costituisce un deterrente.
Mi considerano comunque uno straniero anche in Italia, nel paesino tra Pesaro e Urbino.
Sì, STRANIERO, le mie non sono paranoie o complessi di inferiorità.
Chiunque può trattarti da STRANIERO, farti sentire uno STRANIERO.
Faccio il biglietto dell’aereo e mi preparo mentalmente a partire.
Ho passato settimane, mesi a inviare e consegnare curriculum in giro.
Poche risposte. La più ridicola, quella di un caporale che mi contatta al telefono per dirmi “venga a trovarmi domattina in sede, le propongo un lavoro in produzione”.
Ti indorano la pillola, vuol dire “ti faccio fare l’operaio”. Va benissimo rispondo io.
“La chiamo domattina per farle sostenere il corso on line sulla sicurezza”, promette.
Ma l’indomani la chiamata non arriva, e la chiamo io.
“Non abbiamo più la possibilità di fare corsi, la proposta che le ho fatto ieri automaticamente si annulla”, taglia corto.
Fine della storia.
Avevo quasi dimenticato questa esperienza grottesca.
Ho già stampato il biglietto per Londra, non ho ancora avvertito nessuno di questa scelta.
Provo un po’ di vergogna.
Sono un tradizionalista o come amava definirmi mia moglie poco dopo avermi conosciuto (ovviamente sul posto di lavoro), “ sei un uomo di altri tempi”. Me lo diceva con affetto.
Lascio ora?
Mollo tutto quando probabilmente dovrei insistere, perseverare?
Quello che mi aspetta probabilmente sarà il meglio che mi è capitato. Tento di giustificarmi.
Ma non riesco provare nostalgia per la mia casa.
E quale?
Dov’è la mia casa?
Ho solo un’amara certezza.
Non posso neanche considerarmi “un cervello in fuga”.

Raimondo Riondino