La partita di pallone. La nebbia. Il buio. Il destino cinico e baro. Per anni è stata questa la verità ufficiale delle inchieste e dai processi sul disastro del Moby Prince, il traghetto Livorno-Olbia sul quale morirono 140 tra passeggeri e membri dell’equipaggio dopo la collisione contro la petroliera Agip Abruzzo poche miglia dopo la partenza. I procedimenti giudiziari furono costellati da dubbi non chiariti, punti oscuri, risposte falsificate alla prova dei fatti, “deduzioni apodittiche” come scrissero i giudici di appello che riformarono in parte la sentenza di primo grado. Oggi, dopo il lavoro di una commissione d’inchiesta del Senato, quella verità è stata completamente ribaltata. Scrivono i commissari che l’equipaggio del traghetto fu “eroico”, che la vita a bordo durò ben più di trenta minuti, che la nebbia non c’era. Di più: che l’unica nebbia presente in questa vicenda è quella che per tutto questo tempo ha avvolto alcuni determinanti documenti riemersi solo grazie al lavoro dell’organismo parlamentare. E’ da questi documenti che è partita una nuova inchiesta della Procura di Livorno, la terza in 28 anni.

Un’indagine ad ampio raggio sui nuovi tasselli andati al proprio posto solo adesso. Il più importante è l’accordo tra le due compagnieSnam e Navarma, siglato il 18 giugno 1991, due mesi e 8 giorni dopo il disastro, con le indagini della magistratura appena iniziate. Un accordo che getta una nuova luce sulle due compagnie coinvolte nella tragedia: la Snam, società di Stato che non esiste più (l’attuale è solo omonima), e Navarma, poi diventata Moby, guidata ora come allora dalla famiglia Onorato.

A Genova, con quell’intesa, si decise che Navarma e il suo assicuratore (delle Bermuda) avrebbero risarcito le famiglie delle vittime senza invocare la limitazione del debito sul valore del traghetto e senza chiedere nessun tipo di indennizzo a Snam, Agip e ai loro assicuratori che invece avrebbero risarcito i danni ambientali provocati dalla collisione. Un’intesa apparentemente non conveniente per due società che in quel momento avrebbero dovuto far partire una battaglia legale su ragioni e torti e che ha l’effetto, come scrive la commissione del Senato nelle conclusioni, di porre “una pietra tombale su qualunque ipotesi conflittuale sulle responsabilità”. E di fatto su tutte le inchieste.

Cosa dice questo accordo? Al primo punto, per esempio, è messo in chiaro che in caso di citazione in giudizio di una delle società o anche soltanto di un loro dipendente da parte dei parenti delle vittime, Snam e Navarma si sarebbero difese insieme: nave investita e nave investitrice da una parte, i familiari dei 140 morti dall’altra. Non solo: i dipendenti Snam dovevano essere estromessi dai procedimenti, dovevano rimanerne fuori. “Stayed off from the proceedings” si legge nell’accordo interamente scritto in inglese. E ancora: è Achille Onorato che firma l’accordo in veste di co-amministratore di Navarma eppure l’armatore del traghetto è il figlio Vincenzo. Se e perché Onorato avrebbe potuto avere un interesse nel sottoporre rapidamente l’atto di quietanza ai familiari delle vittime, risarcirli e quindi estrometterli subito da qualsiasi procedimento penale è un punto fondamentale di questa storia che ancora aspetta di essere chiarito.

La Procura di Livorno sta portando avanti un’indagine ad ampio raggio. L’indagine prende in considerazione molti pezzi di un puzzle ora tutto nuovo. L’accordo tra gli armatori del 18 giugno 1991 è quello più importante. Ma dal lavoro della commissione d’inchiesta sono emersi altri nuovi elementi che sono ancora da chiarire. E che possono dare una chiave di lettura anche a quello che ad oggi pare il punto nodale di possibili nuovi accertamenti: quell’accordo del giugno 1991 a Genova, tra Moby, Snam, Agip con i rispettivi assicuratori, tra cui il maggior pagatore, quello delle Bermuda.

C’è il tema, per esempio, del funzionamento dell’impianto antincendio a bordo del Moby Prince. Le testine termosensibili dello sprinkler erano presenti su tutti i soffitti del traghetto (eccetto il garage): raggiunta la temperatura di 73 gradi le ampolle di vetro contenute all’interno delle testine erano progettate per rompersi e innaffiare d’acqua gli ambienti attingendo a un serbatoio di acqua dolce. Esaurita l’acqua dolce, si attivava automaticamente una elettropompa progettata per spruzzare acqua di mare. Secondo la sentenza di primo grado del tribunale di Livorno l’impianto non sarebbe mai entrato in funzione. Eppure a pochi giorni dal disastro i primi consulenti che misero piede sul traghetto trovarono la manopola dell’interruttore dell’elettropompa su “manuale” e non su “automatico”. E alcune ampolline erano esplose, altre no. Ancora: il serbatoio dell’acqua dolce era vuoto. Ma non fu quel sopralluogo a produrre le consulenze per la magistratura. E la domanda che resta è perché.

Quanto scritto nella sentenza di primo grado non si basa sul primo sopralluogo, ma su una relazione di quattro periti nominati dal tribunale che salirono sul traghetto nel gennaio del 1997. Sei anni dopo la collisione. Quando a bordo del traghetto erano saliti in molti. Forse troppi: ci fu anche il tempo di manomettere e trafugare parti della nave, con relativi processi.

Nel marzo del 1991, a meno di un mese dal disastro, il Rina aveva certificato, tra le altre cose, anche il corretto funzionamento dell’impianto sprinkler. Lo stesso Rina poi nella sua relazione del 1993 parla di inefficacia dello sprinkler e non di inefficienza. Secondo l’ente certificatore l’impianto la sera del 10 aprile 1991 funzionò ma non produsse alcun risultato decisivo in quel tipo di incendio. Resta da capire perché l’esito di questa perizia effettuata nel 1997 sia finita nella sentenza di primo grado come punto degno di considerazione senza però dar vita a un fascicolo a carico dell’armatore quando c’era ancora la possibilità di farlo.

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