La storia del Moby Prince non è più solo una croce di fine Novecento, senza colpe e senza eroi. Ha finito di essere una storia dalle risposte facili, anzi facilone, anzi infamanti: la nebbia sul porto, la partita della Juve in plancia di comando. E smette di avere certe tonalità romanzesche: le armi di contrabbando, gli americani, perfino il Mossad, il peschereccio somalo, “lo stesso di Ilaria Alpi”. Quella del disastro del Moby Prince, il traghetto Livorno-Olbia su cui morirono in 140 dopo la collisione con una petroliera a pochi colpi di remo dal lungomare, è una storia di poteri forti. Da una parte le compagnie di navigazione, dall’altra i morti (passeggeri e lavoratori) insieme alle loro famiglie. Da una parte la battaglia civile e solitaria di chi ha resistito per 28 anni non accontentandosi delle verità gualcite date dai tribunali della Repubblica e dall’altra l’accordo assicurativo che i proprietari delle navi firmarono 68 giorni dopo la strage dai tanti primati di dolore: la tragedia più grande della marineria italiana in tempo di pace, l’incidente sul lavoro più grave da quando è nata la Repubblica. Il patto segreto tra le compagnie era (e lo è ancora) fuori dalle regole della logica: la petroliera dell’Agip era stata presa in pieno dal traghetto della Navarma (che poi è diventata Moby, sempre con Vincenzo Onorato alla guida); e viceversa il traghetto aveva colpito la petroliera di Stato, sì, ma su questa gravava forte il sospetto che fosse ancorata dove non doveva, in mezzo al passaggio delle navi che entravano e uscivano dal porto di Livorno. Sulla carta non avevano nessun interesse a fare la pace, eppure la fecero. Un patto segreto, nascosto per ventisette anni, che fa da fuoco centrale del pezzo di verità uscito da un’inchiesta, l’ennesima, questa volta parlamentare: niente nebbia, Capitaneria incapace, l’opacità di Stato della Snam, una società che oggi non esiste più (l’attuale è solo omonima)
Ed è anche il pezzo più grande del nuovo grande puzzle montato per intero ne Il caso Moby Prince-La strage impunita (Chiarelettere, 192 pagg., 16 euro). Lo hanno scritto – con una ricostruzione integrale e documenti inediti – Francesco Sanna e Gabriele Bardazza, per i quali l’indagine su questa strage a lungo dimenticata è cominciata molto prima della commissione del Senato, da quando cioè nove anni fa la Procura di Livorno chiese di archiviare l’inchiesta bis, riprendendo in gran parte le conclusioni del primo processo, finito negli anni Novanta, che – detto in breve – attribuiva le colpe alla solita nebbia e a un presunto comportamento svagato del comando del Moby Prince. Sanna e Bardazza sono ripartiti da lì: insieme ai familiari, hanno ricominciato a riascoltare file audio, a rivedere vecchi filmati e foto ingiallite, a chiedere perizie, a raccogliere i documenti persi o nemmeno mai cercati. L’ultimo sforzo di un impegno civile coperto dal silenzio: dei giornali, della politica, dell’opinione pubblica. Un lavoro d’inchiesta che li ha portati a chiedere informazioni in varie zone del mondo, dall’Egitto (da dove ufficialmente era partita la Agip Abruzzo nel marzo 1991) alle Bermuda. Trovando a volte porte sbarrate e a volte risposte che aprivano altre piste.
Sanna e Bardazza non conoscevano nessuno a bordo della nave andata a fuoco la sera del 10 aprile 1991: si sono avvicinati a questa storia per passione civile. Sanna aveva già scritto un libro sulla strage del ’91, Verità privata sul Moby Prince, oltre a molti articoli per questo giornale. Bardazza lavora nello studio di ingegneria forense Bardazza-Adinolfi di Milano e da 25 anni si occupa di consulenze tecniche in processi penali e civili su eventi catastrofici, tra gli altri il disastro aereo di Linate del 2001 e l’incendio a bordo del Norman Atlantic, il traghetto che nel 2014 andò in fiamme nel canale di Otranto. Si sono ritrovati sulla stessa strada per tentare di dare le risposte che i familiari delle vittime non hanno visto per oltre vent’anni. “Se vogliamo trovare la verità forse dobbiamo allontanarci dai tribunali” aveva detto uno di loro, come ricorda il libro in quarta di copertina.
E’ proprio di Sanna e Bardazza, da sempre, l’intuizione di “seguire il denaro“ per trovare pezzi di verità nascosta. “In modo alquanto curioso – scrivono – sulla vicenda Moby Prince nessuno ha seguito i soldi per oltre vent’anni”. Ecco perché la strage del Moby ha disvelato il suo vero volto, quello di una storia di poteri forti. Le indagini della commissione del Senato – come racconta il libro – hanno dimostrato che il 18 giugno 1991, due mesi e una settimana dopo la tragedia, a Genova venne firmato un accordo assicurativo che di fatto dette vita a una “alleanza tra la parte investita e la parte investitrice”, grazie alla quale “le due grandi aziende pubbliche, Snam e Agip, e i loro assicuratori accettano di non far la guerra legale alla piccola, quanto ambiziosa, compagnia armatrice di Onorato”. Navarma, poi diventata Moby, si impegna a pagare tutte le famiglie senza ricorrere alla cosiddetta “limitazione del debito”: i risarcimenti in questo modo possono partire subito, bassi sì ma immediati. “Chi è a quel tavolo – sottolineano Sanna e Bardazza – sa che il tempo e il rischio sono variabili decisiva negli affari: molte famiglie hanno fretta di chiudere, per necessità, e sono molteplici le voci che le invitano a metterci una pietra sopra”. E le parti civili diminuiscono a vista d’occhio. A pagare circa 70 miliardi di lire – raccontano Sanna e Bardazza – sarà l’assicuratore di Navarma, non quello consueto (l’Unione mediterranea di sicurtà, l’assicurazione più diffusa per la navigazione marittima), ma un altro, venuto da molto molto lontano. Il nome è molto lungo: Standard Steamship Owners Protection and Indemnity Association. La sede si trova alle Bermuda. C’è di più: da parte sua la Navarma della famiglia Onorato aveva stipulato altri contratti assicurativi sul Moby Prince con un valore tre volte superiore alla nave, 20 miliardi di lire contro 7.
Per farla breve: dalle assicurazioni cadde una pioggia di soldi su una compagnia che dopo una tragedia di queste proporzioni avrebbe rischiato la sua stessa esistenza e invece ripartì fino a diventare ora una società leader del traffico del Tirreno. “L’unica tutela economica per gli assicuratori – scrivono Sanna e Bardazza – diventa l’impegno per Moby Invest e Navarma di restituire quell’importo ‘nell’eventualità che emergano dal proseguimento delle inchieste elementi materiali’”. Ma le inchieste successive non troveranno niente di utile per ribaltare una ricostruzione già data per certa a quel tavolo, niente per far restituire i 20 miliardi incassati dalle aziende di Onorato dopo la tragedia. Come evidenzia il libro, le sentenze del primo processo e le conclusioni dell’inchiesta bis del 2010 ricalcano “gli stessi termini descrittivi dell’accaduto che avevano permesso la creazione e il mantenimento dell’accordo tra le parti”. “L’accordo assicurativo siglato tra gli armatori – scrissero i senatori nella relazione finale della commissione – sembra aver condizionato, se pur indirettamente, l’operato dell’autorità giudiziaria”.
Il caso Moby Prince ha la qualità non banale della combinazione tra chiarezza ed essenzialità, ma mantiene la forza di un thriller costruito giocoforza al contrario: parte dalla verità data per certa già mentre il traghetto è ancora in fiamme e la smonta pezzo per pezzo. Dirada la nebbia dall’incidente, tenta una ricostruzione della dinamica della collisione, elenca le bugie di Stato dell’Agip Abruzzo sulla provenienza e sul carico della petroliera contro cui finì il Moby, ricorda le testimonianze incredibili davanti alla commissione d’inchiesta (come due giudici che si sono rifiutate di rispondere alle domande, come i membri dellequipaggio dell’Agip che hanno raccontato ciascuno una versione diversa), mette in fila i buchi e gli errori marchiani nelle indagini della magistratura. Tutto materiale che i lettori de ilfattoquotidiano.it hanno già conosciuto, passo dopo passo, in questi anni.
Restano, come in tutte le storie di poteri forti, molti, enormi, punti d’ombra. “Quantomeno – scrivono ancora Sanna e Bardazza – gli incastri forzati del puzzle sono stati rimossi e alcuni pezzi, per la prima volta, sono comparsi sul tavolo allargando il quadro”.
Gli autori aderiscono alla ricostruzione dell’incidente offerta della commissione d’inchiesta, la cui “pista esplicativa” è “quella dell’accordo assicurativo”. Ma rilevano anche che i senatori hanno “tratteggiato timidamente un nesso tra queste anomalie del percorso giudiziario e la difesa di un interesse economico sancito da quel patto tra le aziende armatrici e i propri assicuratori”. In assenza di spiegazioni, in una storia fatta di silenzi fin dalla sera dei soccorsi mai arrivati, per Sanna e Bardazza “la conduzione cruciale per la sopravvivenza di quel patto” tra le due compagnie “era che non emergessero da inchieste e processi novità divergenti rispetto alla ricostruzione concordata e lo Stato, per 27 anni, ha certificato quella ricostruzione”. Ma ora altri spunti d’indagine sono da approfondire, come detto: i dirigenti dell’epoca di Snam e Agip non sono mai stati sentiti sui documenti inattendibili sull’ultimo viaggio dell’Abruzzo; ci sono perizie assicurative sulla petroliera fatte dopo l’incidente ancora sconosciute; su una bobina ci sono altre 8 tracce di conversazioni radio della notte del disastro mai ascoltate; l’assicuratore delle Bermuda ha ancora tutto sotto chiave. Le relazioni e le perizie tecniche della commissione sono finite alle Procure di Livorno e Roma. Comunque finirà, la ricostruzione integrale in un quadro rimasto smontato per 28 anni dà l’impressione di essere appena cominciata.