Ribaltata la sentenza storica sul caporalato: la Corte d’assise d’appello di Lecce ha assolto 11 dei tredici imputati condannati in primo grado nel 2017 per il reato di associazione a delinquere finalizzata alla riduzione in schiavitù dei lavoratori migranti impiegati nella raccolta delle angurie e dei pomodori nelle campagne di Nardò, in provincia di Lecce. Dietro il verdetto, una ragione tecnica: la Corte ha infatti accolto la tesi del collegio difensivo che puntava sul fatto che nel periodo di contestazione dei fatti, tra il 2008 e il 2011, il reato di riduzione in schiavitù non fosse previsto dalla legge. Eppure per chi a quella lotta ha creduto e ha partecipato in prima persona questa sentenza ha il sapore di una sconfitta. Così è per Yvan Sagnet, ingegnere camerunense tra i testimoni chiave nel processo. L’inchiesta partì, infatti, dopo la rivolta dei braccianti stranieri che occupavano masseria Boncuri, trasformata in una baraccopoli nelle campagne attorno a Nardò. Nel 2011 Sagnet divenne il portavoce dello sciopero che durò un mese e che portò all’introduzione del reato di caporalato. “È una ingiustizia, hanno vinto i caporali”, ha commentato, non nascondendo la propria delusione, in una intervista a Nuovo Quotidiano di Puglia.
QUEL VERDETTO STORICO – La sentenza di primo grado, emessa il 13 luglio 2017, aveva rappresentato una svolta storica, perché per la prima volta in Italia, veniva riconosciuto il reato di riduzione in schiavitù in un procedimento che riguardava il mondo del lavoro. A distanza di cinque anni dagli arresti furono condannati a pene comprese tra i 7 e gli 11 anni di reclusione quattro imprenditori salentini (dei sette imputati) e nove caporali africani. I giudici ritennero colpevoli l’imprenditore Pantaleo Latino, noto come ‘il re delle angurie’ e considerato il referente dell’organizzazione, ma anche Marcello Corvo, Livio Mandolfo e Giovanni Petrelli, oltre a un gruppo di tunisini, un algerino e Saber Ben Mahmoud Jelassi detto Sabr, che diede il nome all’indagine condotta nel 2011.
LA SENTENZA CHE RIBALTA IL PRIMO GRADO – I giudici della Corte d’assise d’appello di Lecce, presidente Vincenzo Scardìa, hanno assolto 11 dei 13 imputati condannati in primo grado. In pratica tutti gli imprenditori di Nardò, tra cui Pantaleo Latino. A pagare saranno solo due caporali stranieri. Il sostituto procuratore generale Giovanni Gagliotta aveva chiesto invece la conferma della sentenza di primo grado. Per gli episodi di estorsione contestati a dieci imputati e riunificati nel reato di riduzione in schiavitù, i giudici hanno dichiarato la nullità del decreto che dispone il giudizio del 20 dicembre 2012, disponendo la trasmissione degli atti al gup, perché hanno ritenuto generica la contestazione. I giudici hanno rideterminato la pena inflitta a Ben Mahmoud Jelassi Saber (5 anni) e Ben Alaya Akremi Bilel (6 anni). Per effetto delle assoluzioni, sono stati annullati anche molti dei risarcimenti disposti in primo grado, come quelli previsti per i sette braccianti costituitisi nel processo, fra i quali lo stesso Yvan Sagnet, il quale ha già annunciato il ricorso in Cassazione, non appena saranno rese note le motivazioni della sentenza.
LA DELUSIONE DI SAGNET – Nonostante dietro la sentenza ci sia una questione tecnica, è inevitabile che il verdetto faccia discutere. Anche perché in Italia una legge sul caporalato che punisce gli imprenditori c’è, nonostante i suoi limiti e le difficoltà legate a una filiera agroalimentare che non tutela i diritti umani. Sono inoltre continue le denunce della società civile verso gli sfruttatori. Tra le più recenti quella di Don Ciotti e dei volontari di Medici con l’Africa Cuamm, che hanno firmato a marzo scorso un articolo sul British Medical Journal. Ecco perché, chi combatte da anni contro il caporalato si chiede oggi che effetti avrà questo verdetto su chi vorrà denunciare il futuro. Intervistato da Nuovo Quotidiano di Puglia, lo stesso Sagnet non nasconde la propria amarezza: “Queste persone – ha dichiarato – escono indenni, pulite, senza un graffio. Era un sistema criminale ben avviato nel Salento, ma nessuno ha mosso un dito”. Sagnet ricorda tutto il percorso che ha portato a una svolta storica “perché nessuno ha mai avuto il coraggio di denunciare prima. E in tanti hanno messo la loro vita a rischio, senza contare le minacce”. Proprio per questo, secondo l’ingegnere, oggi il rischio è di fare passi indietro: “Le conseguenze saranno gravi, se i giudici dovessero confermare le tesi dell’appello”, perché “molti lavoratori che vivono ancora in riduzione in schiavitù in varie parti d’Italia non si ribelleranno agli sfruttatori. È questo il messaggio che arriva da questa sentenza”.