Un’associazione mafiosa radicata sul territorio e autonoma dalla casa madre di Cutro, in Calabria. È lo status delle cosche di ‘ndrangheta in Emilia. A metterlo nero su bianco è la corte di Cassazione, nella sentenza con cui ha rigettato gran parte dei ricorsi degli imputati del processo Aemilia che optarono per il rito abbreviato, molti capi e organizzatori del sodalizio colpito nel 2015 dall’operazione coordinata dalla Dda di Bologna. Sono 40 le condanne, fino a 15 anni, confermate con la pronuncia del 24 ottobre, di cui sono state depositate ora 250 pagine di motivazioni.
Secondo i giudici della Cassazione la Corte di appello ha valutato in linea con la giurisprudenza che ha riconosciuto la configurabilità dell’associazione mafiosa con riferimento a una nuova articolazione periferica di un sodalizio radicato nell’area tradizionale di competenza, anche senza “la commissione di reati fine e l’esteriorizzazione della forza intimidatrice”. Questo, qualora emerga il collegamento con la struttura ‘madre’, l’organizzazione (distinzione di ruoli, rituali di affiliazione, rigide regole interne, sostegno ai sodali in carcere) “lasciando concretamente presagire una già attuale pericolosità per l’ordine pubblico“.
Una delle poche condanne annullate, con rinvio a un nuovo appello, è però rilevante perché riguarda Giuseppe Pagliani, ex consigliere provinciale del Pdl, accusato di concorso esterno in associazione mafiosa. Venne arrestato nel 2015, assolto in primo grado dal gup poi condannato a quattro anni dalla corte di appello. Secondo la Cassazione bisogna procedere alla “rinnovazione della prove dichiarative“, cioè risentire alcuni testimoni.