di Manuela Avakian
È tornato alla cronaca il caso Cucchi e, dopo dieci interminabili (sicuramente per Ilaria) anni, qualche verità. Premetto che non mi piace l’espressione “caso Cucchi“. La trovo mortificante poiché annulla l’aspetto umano della persona relegando il tutto alla dimensione prettamente giudiziaria. È di Stefano Cucchi che si dovrebbe parlare. Semplicemente pronunciare il suo nome, bello come tutti i nomi del mondo. Parlare di un ragazzo come tanti, al tempo stesso unico. Stefano avrà sbagliato, travolto da una dipendenza, e nella giusta misura avrebbe pagato il suo conto con la giustizia che ha il compito di riabilitare, non la licenza di uccidere.
Era buono, solare, generoso e affettuoso. Così lo descrivono coloro che lo hanno conosciuto. Io non posso che pensare a lui come un ragazzo che amava, odiava, rideva, piangeva, scherzava. Che dava gioie e preoccupazioni ai suoi cari. Forse ha avuto, fino al giorno prima di finire in quella maledetta caserma, una ragazza della quale era innamorato. O forse no, forse ne era alla ricerca. Forse non era pronto ad impegnarsi e voleva, come è giusto alla sua età, fare esperienze non vincolanti. Mi chiedo cosa gli piacesse mangiare, se fosse goloso. Chissà cosa sognava di diventare, quali fossero le sue passioni. Sempre che ne avesse. L’apatia non sarà una gran bella cosa, ma non è neppure un peccato mortale.
Mi faccio tante domande su Stefano che sarebbe potuto essere il figlio, il fratello, l’amico di ognuno di noi. Mi angoscia il pensiero di ciò che avrà provato, oltre al dolore fisico, in quei sei giorni – terrore, solitudine, disperazione. Speranza, anche? Chissà che da credente, pur di non rinnegare un Dio a cui talvolta si fa davvero fatica a credere, abbia preferito pensare che l’Onnipotente fosse impegnato in questioni più importanti tanto da non riuscire a salvare Stefano.
Questo penso.
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