La condizione generale del nuovo ordine mondiale si lascia rappresentare, con la potenza figurale della pittura, da Guernica (1937) di Picasso come un immenso campo di battaglia: sulla sua distesa, in virtù del funzionamento a pieno regime del libero cannibalismo competitivista, si producono senza posa violenze e supplizi, che pure vengono legittimati con le nobilitanti quanto mistificatorie etichette delle “chances della globalizzazione” e delle “leggi della concorrenza”.

Nella raffigurazione di Picasso, tuttavia, v’è anche una tenue nota di speranza, una debole apertura verso la possibilità di un futuro redento: una donna allunga il collo fuori dalla finestra e, con la lampada che regge in mano, getta luce sulla sofferenza. Opera affinché essa non resti indistinguibile nell’oscurità e divenga visibile. Questo è, a rigore, il compito primario della ragion critica: gettare luce sulla barbarie tecnonichilistica, decostruire l’ordine del discorso che proditoriamente la occulta e rigenerare, sul piano del concetto, un punto di vista dell’umanità sofferente, in modo da restituire voce agli sconfitti e da organizzarli in vista del loro esodo dalla passività remissiva.

È secondo questa chiave ermeneutica che propongo di intendere il populismo come visione organica della classe del Servo precarizzato e, più in generale, come elaborazione del suo discorso e della sua egemonia, tesa a rovesciare il rapporto di forza dominante e a rifondare spazi reali di democrazia comunitaria e socialista.

Sotto questo profilo, paiono massimamente degne di essere sottoscritte le parole di Ernesto Laclau, tra i teorici che più hanno insistito sul nesso tra populismo ed emancipazione democratica: “Non esiste socialismo senza populismo, e le forme più alte del populismo possono essere solo socialiste”, tese cioè alla liberazione del Servo precarizzato, coincidente con il popolo sofferente contrapposto all’aristocrazia finanziaria turbomondialista.

Ricostruire una visione organica che, pensando altrimenti, ponga al centro l’interesse del popolo e conferisca dignità teorica alla sua aspirazione di emancipazione deve costituire il fondamento di una “ragion populista” (Laclau), che rovesci i canoni egemonici di quella del nuovo ordine mentale globalista.

La stigmatizzazione del populismo, così cara alla neolingua, occulta in sé una più generale stigmatizzazione del popolo in quanto tale: essa fa da sfondo costante a quella che è stata, con buone ragioni, definita da Laclau l’epoca della “denigrazione delle masse”. La demofobia delle sinistre libertarie è, anche in questo caso, la stessa delle destre liberiste. Il clero intellettuale di completamento del rapporto di forza egemonico stigmatizza come “populista” ogni posizione teorica e politica che, anziché assumere il punto di vista dall’alto proprio dell’élite dominante, adotti quello antitetico dal basso, coerente con gli interessi e con le prospettive delle masse nazionali-popolari sconfitte dal mondialismo capitalistico.

La difesa dell’uomo comune, del popolo e dei semplici ha cessato di essere associata all’ordine del discorso della sinistra, che, anzi, in quella difesa individua elementi pericolosi che debbono essere neutralizzati in nome della tenuta dell’ordine asimmetrico vigente. Prova ne è, oltretutto, che nel discorso egemonico il popolo viene sempre più presentato come in antitesi con la “democrazia” o, più precisamente, con l’autoamministrazione dei ceti dominanti: The People Versus Democracy è, a tal riguardo, il titolo del saggio del 2018 di Yascha Mounk

Ogni idea e ogni rivendicazione che non emani dall’oligarchia finanziaria e dal suo clero intellettuale di riferimento viene bollata dalla libertaria Sinistra culturale del costume con l’etichetta di “populismo”: sicché ogni richiesta diretta del popolo è, per definizione, populista, illegittima, pericolosa. D’altro canto, le masse nazionali-popolari, principalmente composte da quelli che Gramsci chiamava i “semplici”, sono anche le meno agevolmente condizionabili dall’ideologia dominante, le meno permeabili dal nuovo ordine mentale della openness cosmopolitica, che ricalca il movimento onnidirezionale delle merci e delle persone mercificate nell’open space del mercato deregolamentato e no border.

Le masse nazionali-popolari sono, infatti, ancora legate alle tradizioni e alla loro terra, là dove i colti e i semi-colti sono infinitamente più soggetti alla manipolazione organizzata che li induce, senza che neppure se ne avvedano, a ripetere ossessivamente le formule preordinate del pensiero unico e a identificarsi senza riserve con i processi di omologazione cosmopolitica organizzata. Contro il coro virtuoso degli armigeri del pensiero unico politicamente corretto ed eticamente corrotto, occorre allora rivendicare la categoria di populismo come base di una democrazia socialista che, reagendo al mondialismo verticistico della classe dominante, ponga al centro la massa nazionale-popolare degli sconfitti del mondialismo, il Servo populista.

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