È questa la conclusione a cui è giunta l'inchiesta condotta in poco più di un anno dal pm di Treviso Massimo De Bortoli, dopo aver ricevuto i fascicoli dalla Procura d Roma. Oltre all'aggiotaggio e all'ostacolo alla vigilanza, viene contestato il reato di falso in prospetto
Richiesta di processo solo per quattro manager di Veneto Banca, l’istituto di credito trevigiano finito in dissesto quattro anni fa. Per sette degli indagati, invece, richiesta di archiviazione. È questa la conclusione a cui è giunta l’inchiesta condotta in poco più di un anno dal pubblico ministero di Treviso Massimo De Bortoli, dopo aver ricevuto i fascicoli dalla Procura d Roma. Oltre all’aggiotaggio e all’ostacolo alla vigilanza, viene contestato il reato di falso in prospetto, con il rischio però che l’intera vicenda finisca in prescrizione. Tale epilogo si profila se non vi sarà una sentenza definitiva entro il giugno 2020 per il falso in prospetto, entro l’ottobre 2021 per l’aggiotaggio, il dicembre 2023 o l’agosto 2024 per l’ostacolo alla vigilanza.
Dopo il deposito degli atti, la Procura è intenzionata a chiedere il rinvio a giudizio dell’ex amministratore delegato Vincenzo Consoli, dell’ex presidente del consiglio di amministrazione Flavio Trinca, dell’ex condirettore generale (nonché responsabile commerciale) Mosé Fagiani e dell’ex responsabile della Direzione centrale amministrazione Stefano Bertolo.
Le sette posizioni per cui c’è richiesta di archiviazione riguardano, invece, l’ex responsabile degli affari societari e legali Fabio Marcolin, i finanzieri Pietro D’Aguì e Gianclaudio Giovannone accusati di aver acquistato obbligazioni con due prestiti da sette milioni e mezzo di euro, l’ex direttore della Compliance Massimo Lembo, l’ex direttore del dipartimento banche estere e partecipazioni Renato Merlo e i due ex componenti del collegio sindacale, i commercialisti Diego Xausa e Michele Stiz.
I pubblici ministeri di Roma Maria Sabrina Calabretta e Stefano Pesci avevano chiesto il rinvio a giudizio anche di questi sette, prima che l’inchiesta trasmigrasse a Treviso, in accoglimento della richiesta dei difensori di Consoli. Ma una perizia avrebbe accertato che gli importi e le circostanze contestate non erano in grado di alterare la percezione delle autorità bancarie sullo stato reale dei conti della popolare trevigiana.
Consoli e Trinca avrebbero “indicato falsamente nella segnalazione periodica alla Banca d’Italia relativa all’ultimo trimestre del 2012 e in quelle successive fino al dicembre del 2013, un ammontare del patrimonio di vigilanza non corrispondente al reale”. In poche parole, avrebbero omesso di decurtare il patrimonio di vigilanza di 430 milioni di euro equivalenti ai finanziamenti a clienti per l’acquisto di azioni proprie. Inoltre, c’erano perdite per un miliardo e 131 milioni di euro causate dalla svalutazione dei crediti, e il mancato accantonamento di 134 milioni per rischi operativi. Il risultato fu il crollo del patrimonio di vigilanza effettivo, pari a 613 milioni di euro, mentre secondo i requisiti patrimoniali obbligatori avrebbe dovuto essere di un miliardo 138 milioni di euro. Secondo l’accusa, a fine 2013 Veneto Banca era già insolvente, non per 2,7 miliardi, come dichiarato ufficialmente, ma per 3,3 miliardi di euro.
Tutto questo ha comportato, secondo il pm, comunicazioni non veritiere alla Vigilanza, provocando “una sensibile alterazione del prezzo delle azioni di Veneto Banca” e condizionando “l’affidamento che il pubblico riponeva nella sua stabilità patrimoniale”. Infatti, il valore dei titoli era passato da 21,25 euro del 2004 a 40,75 euro del 2013, salvo poi crollare bruscamente quando le irregolarità vennero a galla. Il falso in prospetto è stato contestato in relazione all’aumento di capitale dell’estate 2014, quando i sottoscrittori di azioni sarebbero stati ingannati e indotti all’acquisto, per cercare di salvare una barca che stava già affondando.