Il gasolio puzza, inquina e fa male. Più o meno sentenziavano così molti dei maggiori costruttori automobilistici dopo lo scoppio dello scandalo dieselgate della Vw (datato settembre 2015), mentre si buttavano a capofitto sullo sviluppo della tecnologia elettrica, promettendo, in taluni casi, fantomatiche dismissioni dei propulsori diesel. Ora, a quasi 4 anni di distanza, non solo il diesel è ancora vivo e vegeto, ma è anche ritenuto indispensabile per centrare i target di contenimento delle emissioni di CO2 prodotte allo scarico dalle auto. Lo dice anche Anfia, l’Associazione Nazionale Filiera Industria Automobilistica.

“Per raggiungere il target del 2021 di 95 g/km di CO2 nell’Unione Europea, occorre che la media delle emissioni si riduca ancora di 23,5 g/km, un’impresa impossibile senza il contributo delle auto nuove diesel, che producono meno CO2 delle auto a benzina, o senza un aumento esponenziale di auto elettriche, impensabile con l’attuale rete infrastrutturale di ricarica e senza un sostegno economico prolungato alla domanda, visto il mix del mercato”. Ben inteso: il moderno diesel con filtro Fap e Scr – per contenimento del particolato e degli ossidi di azoto – rappresenta un’efficiente compromesso fra costi e impatto ambientale: pertanto, non sconvolge che, ancora una volta, debba necessariamente rientrare nei piani a medio-lungo termine dei costruttori.

Ciò che lascia perplessi, semmai, è che la demonizzazione del diesel di cui i costruttori (e i loro rappresentanti) accusano le amministrazioni – l’Anfia parla non a caso di “agenda anti-diesel” – è figlia delle stesse politiche della case automobilistiche: in primis per quanto successo col dieselgate. E, poi, per colpa delle promesse, troppo lusinghiere, sulla mobilità elettrica di massa. Bella e pulita, su carta, ma costosa, limitata da una fisiologica carenza di infrastrutture e con molti punti interrogativi che rimangono irrisolti: dalle emissioni di CO2 che si generano per la produzione delle EV, superiori rispetto a quelle diffuse dallla costruzione di un’auto termica, alla rinnovabilità delle fonti di produzione energetica, per finire con lo smaltimento delle batterie, che ad oggi necessitano di elementi rari per le loro costruzione. In altri termini, l’ingenuo entusiasmo per gli elettroni si sta progressivamente scontrando con la concretezza delle problematiche intrinsecamente legate all’elettromobilità.

Un background in cui crescono rigogliose le sementa per una seconda giovinezza del vituperato motore diesel, riscoperto “meno peggio” di quanto si pensasse fini a pochi mesi fa. Ora, però, c’è un altro problema: la crociata antidiesel, innescata dagli stessi costruttori che oggi ne pagano le conseguenze, ha cominciato a produrre inevitabili effetti di mercato: nel 2018, a fronte di immatricolazioni sostanzialmente stabili rispetto al 2017, le vendite di auto diesel sono scese del 18%, per una perdita di 1,24 milioni di unità. Sicché la quota di mercato del diesel è passata dal 44% al 36%. Di contro, sono aumentate del 12% le immatricolazioni dei veicoli a benzina (967 mila unità in più), passati al 56% del totale: mezzi che, però, emettono più CO2 delle diesel. E sono cresciute quelle delle auto con alimentazione alternativa – ibride, plug-in, elettriche, – arrivate a 1,22 milioni, con una crescita del 28% sul 2017 e una quota dell’8% sul totale venduto. Tutto questo in Europa.

“Verosimilmente – sottolinea l’Anfia sulla base dei suddetti dati – anche per il 2018 si determinerà, come per l’anno precedente, un aumento delle emissioni medie di CO2 delle nuove auto vendute, dovuto al fatto che le auto a benzina (in crescita) producono più emissioni di CO2 delle auto diesel (in calo costante) e che l’incremento delle auto ad alimentazione alternativa, pur in forte crescita, non è sufficiente ad abbassare il livello medio delle emissioni delle nuove auto immatricolate. Proprio sul fronte ambientale, dunque, l’agenda anti-diesel ha rallentato i progressi sui cambiamenti climatici”. In soldoni, per l’Anfia l’inquinamento da CO2 prodotta dall’automotive è colpa delle auto a benzina e del calo delle diesel, cui non sopperiscono in maniera sufficiente le vendite di vetture ad alimentazione alternativa. Domanda da un milione di dollari: è colpa delle istituzioni se le frodi dei costruttori hanno causato la (discutibile) stretta sul diesel – e le derivanti conseguenze commerciali – da parte delle (impreparate) amministrazioni pubbliche? Attendiamo fiduciosi risposta.

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