Tutto è cominciato il 18 dicembre, con l’annuncio del governo di voler triplicare il prezzo del pane (da 1 a 3 libbre sudanesi). Il giorno dopo, la gente ha iniziato a protestare.
È stata quella la goccia che ha scatenato l’onda che oggi ha travolto Omar al-Bashir: è bastato un niente perché si passasse dalle proteste per l’aumento del pane alla richiesta di dimissioni del presidente-padrone, giunto al potere nel 1989 con un colpo di Stato. Su Bashir pende anche un mandato d’arresto della Corte Penale Internazionale per crimini contro l’umanità e genocidio, in riferimento alle stragi nel Darfur. Ciò nonostante, Bashir era stato di nuovo scelto dal suo partito, il Congresso Nazionale, come candidato alle presidenziali previste nel 2020.
Forse anche per questo, nei primi giorni di rivolta sono state prese di mira anche diverse sedi del partito al potere, date alle fiamme dai manifestanti. Come risposta, il 21 dicembre il governo ha proclamato lo stato d’emergenza in quattro città e schierato l’esercito a Oumdourman, la città gemella di Khartoum. E – come accade sempre più spesso a queste latitudini in caso di sommosse o proteste – ha bloccato anche l’accesso a internet.
Nei primi giorni, si contavano già i primi morti fra i manifestanti, uccisi dalle forze dell’ordine. Eppure le proteste non si sono arrestate. Anzi. Il contesto economico catastrofico, con un’inflazione al 70% e la scarsità di pane e benzina, è stata solo la miccia di un malcontento ben più profondo. Già un anno fa, nel gennaio 2018, c’erano state manifestazioni contro l’eccessivo rincaro delle derrate alimentari. Ma erano state subito soffocate. E prima ancora, c’era stato il movimento del «settembre 2013» contro la politica economica del governo, che si è concluso con un bilancio di almeno 200 persone uccise nelle strade di Khartoum. Ma in quei casi le proteste sono rimaste confinate alla capitale. Stavolta, invece, in quasi tutte le regioni del Sudan la gente è scesa in strada. Per il regime si è trattato della prima vera rivolta estesa a tutto il Paese.
La cronologia delle proteste – I primi goffi tentativi del governo per tentare di sedare le folle sono quelli di parlare di manifestazioni eterodirette: Salah Gosh, capo dei servizi sudanesi, il 21 dicembre in una conferenza stampa accusa direttamente i servizi israeliani di incitare la popolazione alla violenza. Accuse cadute nel nulla.
In pochi giorni, si è avuta un’escalation senza precedenti: il 23 dicembre, quinto giorno di proteste, un gruppo di medici diffonde un appello allo sciopero, assicurando solo le urgenze. Il 24 sono bloccati diversi quartieri di Khartoum, chiuse le università. Gli ospedali accolgono solo i casi gravi. Ai medici si aggiungono insegnanti, giornalisti, avvocati, architetti. La richiesta degli scioperanti è sempre la stessa: che Bashir se ne vada. Internet resta bloccato. Il 25, sciopero generale e cortei in 12 città del paese. I morti salgono a 37. A Khartoum, i manifestanti tentano di dirigersi verso il palazzo presidenziale. Molti vengono bloccati prima di potersi unire al corteo. Altri si trovano davanti agenti in tenuta antisommossa e tiratori scelti sui tetti. La folla scandisce slogan che chiedono le dimissioni di Bashir, reclamano libertà e democrazia e invitano i poliziotti a unirsi alla protesta. Ne ottengono gas lacrimogeni.
Dal palazzo di vetro di New York si alza la voce del Segretario generale dell’Onu Antonio Guterres, che esorta a rispettare il diritto di protesta e anche di libera espressione. Il regime infatti se l’è presa anche coi giornalisti, arrestandoli, aggredendoli, espellendoli, come successo fra l’altro alla collega italiana Antonella Napoli. Il 31 dicembre, le categorie professionali in sciopero invitano la gente a passare la notte in strada, per ricordare l’anniversario dell’indipendenza. Bloccato un altro tentativo di marciare sul palazzo presidenziale. “La rivoluzione è la scelta del popolo” scandiscono i manifestanti, che reclamano “libertà, pace e giustizia” e scandiscono: “Noi non abbiamo paura”. Il primo gennaio, 63esimo anniversario dell’indipendenza, Bashir, nel discorso di rito, si dice “fiducioso nella capacità di superare le sfide economiche”, promette elezioni libere nel 2020 e annuncia la formazione di un “comitato di verità” per far luce sui fatti dal 19 dicembre. Ma nessuno gli crede. Le proteste continuano, tenaci e ostinate. Il 22 febbraio, al-Bashir dichiara lo stato d’emergenza per un anno (poi ridotto a sei mesi dal parlamento). Le proteste vanno avanti, nella capitale e nella città vicina Omdourman, ma con minore forza, poiché dopo la proclamazione dello stato d’urgenza molti manifestanti vengono arrestati e processati da tribunali speciali. Il bilancio dei morti varia a seconda delle fonti: 31 stando alle autorità, 51 secondo Human Rights Watch.
La svolta arriva sabato 6 aprile: i manifestanti riescono, per la prima volta, a giungere fino al quartier generale dell’esercito, che ospita anche il Ministero della Difesa e la residenza ufficiale di al-Bashir, cosa che finora era stata loro impedita. Gli appelli degli organizzatori delle proteste chiedono all’intero paese di scendere nelle strade, in una data non casuale: il 6 aprile 1985 una rivolta aveva rovesciato il regime del presidente di allora, Jaafar al-Nimeiri.
E da lì, da questo 6 aprile, non si sono più mossi. Un assedio pacifico, ma tenace al palazzo presidenziale, che ha messo alle strette il regime. Fino alla notizia di oggi, della capitolazione.
Il ruolo delle donne – Un ruolo di primo piano in questi mesi lo hanno giocato le donne. È diventata virale la splendida immagine di Alaa Salah, una giovane donna in tobe bianco, l’abito tradizionale, che – salita sopra un’auto – arringa la folla col dito puntato verso l’alto. La foto, scattata l’8 aprile a Karthoum, ha fatto il giro del mondo. Molte donne si sono distinte per la partecipazione attiva durante le manifestazioni, anche nel fronteggiare le forze dell’ordine. Un’emancipazione pretesa e presa di fatto, in uno dei pochissimi paesi al mondo a non aver mai ratificato la Convenzione per l’eliminazione di tutte le forme di discriminazione verso le donne, adottata dall’Onu nel lontano 1979.
Lo scorso 8 marzo, l’Associazione dei professionisti sudanesi (SPA, un coordinamento parallelo ai sindacati, che in Sudan sono in mano al potere) ha invitato a manifestare “per l’onore delle sudanesi” e “in solidarietà con le prigioniere e le donne in sciopero della fame”: molte donne in quell’occasione si sono unite alla manifestazione per chiedere a gran voce un miglioramento delle loro condizioni sociali. I manifestanti chiedono che il regime finisca davvero. E forse con lui anche la subalternità della donna.