Già più volte ho trattato sul mio blog del pasticciaccio brutto dell’articolo 41 del decreto Genova, che per alcune sostanze industriali e tossiche ha innalzato notevolmente i limiti indicati dalla Cassazione nel 2017 per l’utilizzazione dei fanghi da depurazione in agricoltura. Se oggi ne riparlo è perché ci sono due novità, una italiana e l’altra “europea”.
1. Quella italiana è una sentenza (n. 4238 del 29 gennaio 2019) in cui la Cassazione doveva decidere su un ricorso presentato da alcuni fanghisti imputati di traffico illecito di rifiuti per aver gestito ingenti quantitativi di fanghi da depurazione destinati al compostaggio, che superavano abbondantemente i limiti indicati dalla Cassazione. Tra i motivi del ricorso spiccava quello, solito, secondo cui non si possono applicare ai fanghi i limiti previsti dalla legge per i suoli da bonificare, in quanto sarebbe come mischiare le pere con le mele (lo disse all’epoca il ministro dell’Ambiente).
In realtà, dopo l’articolo 41 tale problema deve ritenersi superato in quanto, per legge, sono stati imposti nuovi limiti che ovviamente prevalgono. Infatti proprio questo dice la Cassazione, ma aggiunge significativamente che comunque essa, in proposito, “condivide le argomentazioni” della sua precedente sentenza del 2017. E, soprattutto, mette in evidenza che i nuovi limiti dell’articolo 41 valgono solo al momento dell’utilizzazione di questi fanghi perché, prima, si deve verificare che – come dice la legge – essi abbiano caratteristiche e provenienza “civili” e non “industriali”. Insomma, prima dell’articolo 41 è essenziale verificare se questi fanghi possedevano “sin dall’origine” i requisiti per poter essere recuperati come compost. Il che significa “sterilizzare” l’articolo 41, in quanto le sostanze pericolose da esso consentite non possono essere contenute in un fango “civile”.
2. La seconda novità è un’altra sentenza, questa volta della Corte europea di giustizia (seconda sezione, 28 marzo 2019) in cui si doveva decidere sulle condizioni necessarie per escludere dalla normativa sui rifiuti un fango da depurazione oggetto di operazioni di recupero per l’agricoltura.
In proposito, come riferisce l’Avvocato generale, l’Austria aveva “giustamente rilevato” che questi fanghi “sono collegati a determinati rischi per l’ambiente e la salute umana, anzitutto, al rischio di contaminazione con sostanze inquinanti”. Osservazione condivisa dalla Corte europea, la quale conferma che “dagli elementi del fascicolo sottoposto alla Corte risulta che il recupero dei fanghi di depurazione comporta taluni rischi per l’ambiente e la salute umana, in particolare quelli connessi con la presenza di sostanze pericolose”; e pertanto – ha concluso la Corte – uno Stato membro può decidere che un fango da depurazione resti per sempre un rifiuto anche se ha subito operazioni di recupero. In tal modo, infatti, esso sarà per sempre soggetto alla disciplina cautelativa stabilita per i rifiuti “dalla culla alla tomba”.
Peraltro, mentre l’Italia con l’articolo 41 ne ammette l’utilizzo in agricoltura, anche se pesantemente contaminati da sostanze tipicamente industriali, in altri Stati europei (fra cui la Svizzera, la Germania e l’Austria) “l’uso dei fanghi in agricoltura è molto limitato, se non inesistente” proprio per il rischio connesso alla possibile presenza di sostanze pericolose, come si legge nella relazione della Commissione europea del 27 febbraio 2017 sull’attuazione della normativa Ue in materia di rifiuti.
A questo punto, non resta che sperare che il ministro Sergio Costa mantenga presto la sua promessa di rivedere l’articolo 41 onde eliminare qualsiasi problema per l’ambiente e per la salute. Alla luce di queste ultime risultanze, basterebbe ribadire che nei fanghi di depurazione per l’agricoltura non ci devono essere sostanze tipicamente industriali; salvo che non siano “tracce” del tutto insignificanti.