La storia di Julian Assange simbolizza perfettamente la parabola della Rete: da promessa di libertà a strumento di persuasione occulta. A questo cambio nella percezione del web corrisponde la metamorfosi dell’immagine di Assange, dopo sette anni di reclusione nell’ambasciata ecuadoriana di Londra. Li avesse passati in galera, ne sarebbe uscito meglio. Fisicamente, perché avrebbe goduto di un’ora d’aria al giorno. Simbolicamente, perché il suo carisma non si sarebbe usurato.

Il punto di svolta, per il web e per Assange, è il 2016, l’anno del referendum sulla Brexit e dell’elezione di Donald Trump. È allora che nell’opinione pubblica statunitense prima e nel villaggio globale, i due miti gemelli – Julian e la Rete – cadono nella polvere. Ma presagi ce n’erano stati anche prima. Nel 2013, era stata la Russia di Putin a concedere asilo a Edward Snowden, eroe del web molto meno controverso di Assange. Nel 2015, Jonathan Franzen si era ispirato a quest’ultimo nel suo romanzo Purity, metafora della purezza perduta: l’alter ego di Julian, lì, si chiama Andreas Wolf, lupo, un lupo travestito da agnello.

Ma sono stati l’elezione di Trump e i due scandali digitali – Cambridge Analytica e Russiagate – a rovesciare la percezione dei due miti gemelli. Assange ha inutilmente negato di aver passato lui ai russi le rivelazioni su Hillary Clinton: niente di paragonabile, fra l’altro, a quello che tutti sanno su Trump. Anche la piattaforma da lui fondata, Wikileaks – letteralmente, rivelazioni per tutti – si basava sull’idea che tutti dovessero sapere tutto di tutti: ma non ci sono mai state rivelazioni sulla Russia o sulla Cina. Eppure, le persecuzioni che ha subito, dalla Svezia, dagli Usa, sino all’asilo nell’ambasciata, non avevano ancora intaccato del tutto la sua credibilità.

Intanto, però, era la Rete a perdere l’innocenza. Improvvisamente ci siamo accorti che le tante democrature del pianeta – democrazie dittatoriali, o dittature democratiche – si dividono in due classi: quelle che controllano direttamente Internet e quelle che se ne servono per promuovere l’uomo forte di turno. Sono passati solo tre anni, eppure il mondo in cui Assange è uscito dall’ambasciata ecuadoriana è diverso da quello in cui c’era entrato. Della Rete, ormai, diffidano tutti; anche i Cinquestelle, gli ultimi che danno credito incondizionato a Julian, sembrano farlo per riflesso condizionato, o perché temono di passare di moda pure loro.

Ma non tutto è perduto: né per Assange, né per la Rete. Quanto a lui, estradarlo negli Stati Uniti potrebbe essere pericoloso: conosce troppi segreti di tutti. Nel Regno Unito, poi, in pieno psicodramma della Brexit, il leader laburista Jeremy Corbyn si è improvvisamente ricordato che dobbiamo a Julian molto di quel che sappiamo delle invasioni dell’Afghanistan e dell’Iraq. Un vignetta raffigura persino Assange che esce dall’ambasciata dell’Ecuador e la May che ci entra.

Quanto alla Rete, tre anni di populismo digitale sono pochi per trinciare giudizi o fare previsioni: la verità è che ne sappiamo ancora troppo poco. Tutti i libri che stanno uscendo sul populismo non sono ancora riusciti a né a confermare né a falsificare due ipotesi: che la democrazia non serva tanto al governo del popolo quanto a limitare il potere, e che anche il populismo digitale possa servire a entrambi gli scopi, a legittimare i governi oppure a controllarli. Da giurista che s’è occupato di sicurezza e libertà, poi, posso aggiungere solo questo. Se proprio devo scegliere fra i due principi costituzionali che entrano in conflitto nel caso Assange – libertà d’informazione e sicurezza nazionale – io non ho proprio dubbi: scelgo la libertà d’informazione.

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