Politica

Piccoli Comuni, un pezzo d’Italia soffre e si spopola. E i governi sembrano impotenti

“Me ne vado, è stato un piacere. Ah, sappi che da domani smetto di lavorare”. Quando qualche anno fa il segretario comunale lasciò gli uffici silenziosi e spogli dalle pareti ocra del mio paese, aveva 35 anni. Era giovane. Da una vallata della Bergamasca, dove aveva avuto in gestione da solo cinque municipi di piccole dimensioni – poche centinaia di abitanti ciascuno – lo mandavano in Sicilia, in un nuovo comune. Una reggia con esercito, in confronto: due vicesegretari e 35 dipendenti. Totale cittadini? Ventimila, diecimila? No, settecento. Una manciata in più rispetto al mio paese di residenza. E complessivamente meno dei cinque modesti centri montani in cima alla valle prealpina che stava salutando. Da quel momento in avanti, come lui stesso aveva confidato, avrebbe “smesso di lavorare”.

I piccoli Comuni, cioè per legge quelli con una popolazione inferiore alle 5mila unità, hanno di fronte a sé un futuro incerto. E difficile. La ragione principale è che la maggior parte di essi sta invecchiando e si sta spopolando. Da un lato c’è la bassa natalità, diffusa un po’ ovunque in Italia, dall’altro la mancanza di opportunità per una giovane famiglia o per chi una famiglia la vuole costruire. E con mancanza di opportunità intendo tante cose. Chi, per esempio, vive in un paese come quello in cui sono cresciuto deve percorrere una decina di chilometri tra le curve per imbattersi nel primo negozio, non ha né banca né sportello bancomat, può contare solamente su due corse di autobus in tutta la giornata (tre durante il periodo scolastico), ha l’ospedale a 30 minuti di auto – ma se una donna deve partorire il viaggio si allunga a un’ora -, la scuola primaria a 20 e quella secondaria a 50. E, soprattutto, ha scarse probabilità di trovare un lavoro*.

Il sindaco di Esino Lario, in questi giorni, pur con una trovata di marketing fatta insieme a una compagnia telefonica (ha annunciato di voler vendere gli immobili del Comune a un euro, salvo poi rivelare cosa c’era dietro) ha avuto il merito di portare all’attenzione della politica il problema dello spopolamento dei piccoli enti. Non sto parlando di un fenomeno marginale. Anzi. Considerato che ricoprono più del 50% del territorio nazionale e ospitano circa 10 milioni di persone, direi proprio l’esatto contrario. Eppure, sembra che i governi non sappiano dove mettere le mani o che, nella peggiore delle ipotesi, se ne freghino.

Nel 2017, dopo un iter infinito che ha attraversato la bellezza di quattro legislature, fu approvata la cosiddetta legge salva-borghi. Un provvedimento che ha avuto, e avrà, la stessa efficacia dello scellerato che sul bagnasciuga desidera svuotare il mare con una scopa di saggina. Nel 2010 Roberto Calderoli, Lega, e nel 2014 con la stessa dannosa miopia bipartisan Graziano Delrio, Pd, obbligarono i municipi ad accorpare tra loro le “funzioni”, cioè decine e decine di servizi. Senza chiedersi se fosse possibile, senza verificarne esito e, di nuovo, efficacia. Nel frattempo – correva l’anno 2012 – sembrava fossimo ancora sulla punta di un piede, solo a un centimetro dallo strapiombo. Così l’esecutivo guidato da Mario Monti, per rafforzare le disposizioni del decreto salva-Italia approvato l’anno prima, istituì il Fondo di solidarietà comunale. Nel quale, giustamente, chi aveva di più metteva di più. E grazie al quale chi aveva meno riceveva la fetta di torta più grande. Senza tuttavia considerare sprechi e inefficienze e incentivando, di conseguenza, inefficienze e sprechi**. Che fine ha fatto questo fondo, che nelle intenzioni iniziali doveva essere provvisorio? C’è ancora. Mentre, come contraltare, i trasferimenti statali sono sempre più ridotti all’osso.

Ora, potrei mettere in fila i numeri, che come al solito si esprimono meglio delle parole. Dicendo che tra alcune decine di anni, non tanti, la Sardegna potrebbe perdere 31 dei suoi 377 municipi. Che dal 1971 al 2016, mentre la popolazione italiana cresceva del 12%, quella dei piccoli comuni calava del 13%. Che tra il 2012 e il 2017 sono state 74mila le persone che hanno cambiato residenza e che hanno preso la strada della città. I dati sono questi. E sono più o meno noti. Quello che vorrei capire, per andare un po’ oltre, è sapere cosa stia facendo il governo del cambiamento (è in corso un tavolo tecnico-politico per la revisione del testo unico degli enti locali).

Perché, è vero, le reazioni dal basso ci sono. Penso alla Rete dei piccoli comuni del welcome, nata in Campania; penso alle esperienze che dalla Valle d’Aosta alla Sicilia hanno fatto quadrato intorno al vino; penso al modello Succiso, sull’Appennino emiliano. Ma per invertire la rotta sono necessarie politiche, dall’alto, di medio-lungo periodo. In questo senso il Def approvato lo scorso mercoledì non è confortante, dato che per mantenere l’impalcatura con quota 100 e reddito di cittadinanza il governo è pronto a tagliare, in quattro anni, più di 13 miliardi di euro. Servono politiche, ahinoi, che non portano voti. Quelle, per dirla prosaicamente, che non facciano più esclamare a un giovane segretario comunale: “Smetto di lavorare”.

*Attenzione, però: c’è un palazzetto del ghiaccio, tantissimi bar (ben tre!), che fungono da luogo di ritrovo e formazione culturale e scorte infinite di buona, buonissima aria verde di montagna.
**A tal proposito, in Lombardia esistono le graduatorie con l’Indice sintetico di virtuosità.