Cinema

Les Invisibles/Le invisibili, racconto contemporaneo sulle ultime della società con dickensiane speranze

Accidenti che storia, che orgoglio, che film. Les Invisibles/Le invisibili, dal 18 aprile nelle sale italiane con distribuzione Teodora, è un racconto contemporaneo sugli ultimi, pardon sulle ultime della società. Un film corale. Un film di donne, con donne, sulle donne. Un immenso fiume di donne che si unisce, fa fronte comune, e si difende con forza

Accidenti che storia, che orgoglio, che film. Les Invisibles/Le invisibili, dal 18 aprile nelle sale italiane con distribuzione Teodora, è un racconto contemporaneo sugli ultimi, pardon sulle ultime della società. Un film corale. Un film di donne, con donne, sulle donne. Un immenso fiume di donne che si unisce, fa fronte comune, e si difende con forza.

Nel fortino di un centro diurno comunale di una città del Nord della Francia, che non essendo “produttivo” (ricolloca soltanto il 4% delle sue ospiti) verrà chiuso nel giro di tre mesi, trovano riparo durante il giorno decine di signore e signorine finite in fondo alla scala sociale ed economica della vita: dalla migrante alla ex carcerata, dalla ragioniera alla psicoterapeuta, dalla ragazzina borderline fino all’anziana artigiana. E a difenderle c’è un manipolo tutto al femminile di assistenti sociali dell’Envol che a sua volta, a causa dell’anima gettata oltre l’ostacolo per il lavoro svolto, finisce “invisibile” esso stesso agli occhi dei propri mariti, fidanzati, fratelli, conoscenti. Soltanto la tenacia, la determinazione, la volontà delle quattro dipendenti pubbliche permetterà alle “ospiti” di resistere, tornare a sorridere, rivivere una speranza, aiutandole a farsi di nuovo “belle”, a provare ad inserirsi in un mondo lavorativo che non sembra più avere bisogno di nessuno. Lo sguardo del regista Louis-Julien Petit è minuziosamente preciso e apparentemente antispettacolare.

Per un film in cui si ride molto amaramente, ispirandosi ad un cinema partigiano e pedagogico, modello commedie sociali alla Ken Loach, e riportando le stesse screziature su fondali periferici, caseggiati, tetti e comignoli tutti uguali, un po’ Free Cinema alla Karel Reisz. Al bando ogni lacrima facile, perché ogni tipo di parentesi che si apre in questo percorso di salvezza e rinascita, soprattutto nel buffo restyling delle signore del film, autentici cicloni neorealistici espressivi, prova a bucare ironicamente la fatica, l’affanno, il dispiacere provato nello scalare montagne di pregiudizi sulle senza fissa dimora.  Con solide basi cronachistiche documentate, e ariosa allegoria nella messa in scena, Petit entra in contatto con la marginalità del centro diurno senza esasperare lo spettatore, richiamando l’approccio intelligentemente soft di Io sono tempesta diretto da Daniele Luchetti. Lì, dentro ai centri diurni, si può fare una doccia, mangiare, riposarsi, stare al caldo, ma non si può dormire. È illegale. E gli escamotage formali delle leggi disegnano oltretutto per le ospiti dei tour de force di centinaia di chilometri solo per un alloggio da raggiungere dopo ore di pullman. Inutile girarci attorno: è il sistema pubblico oramai ad essere sballato. E il funzionarietto tutto bello lindo e pulito che spiega ad una delle assistenti sociali il perché le donne ospiti non escono dal circolo vizioso dell’assistenza – “Voi le coccolate, per questo ritornano” – aggiunge ulteriore meschinità utilitaristica sulla pelle di esseri umani rimasti involontariamente indietro. Les Invisibles, pur affrontando un tema così delicato e ostico, ha incassato in Francia oltre 10 milioni di euro. Una cifra da capogiro che merita dignitoso e infinito rispetto. Il film si ispira al lavoro sul campo di Claire Lajeunie, che ha dedicato un libro e un documentario alle donne senza dimora di Parigi. Infine, accanto alle professioniste Audrey Lamy e Corinne Masiero recitano moltissime attrici non professioniste con un passato reale di vita in strada (citiamo Adolpha Van Meerhaeghe su tutte). E sono loro la vera forza trainante, mai disperata e mielosa, di un film lontano dagli happy end, disseminato di interrogativi politici (il mondo del lavoro, sempre che ci si arrivi, è davvero orribile), ed ebbro di grandi dickensiane speranze.