di Manuela Avakian
Pensavo di essere per metà armena. Poi è arrivata l’attualità fatta di barconi, di porti chiusi, di migranti e politicanti schiava di una strumentalizzazione senza soluzione di continuità. Tutti commentati, commiserati, compresi o condannati da chi non ha mai attraversato il mare, né il deserto. Da chi non ha conosciuto la paura vera, né la fame. Così ho capito di essere anche armena. Ho compreso finalmente perché il mio cuore si apre alle celebrazioni del 25 aprile, e perché con altrettanta forza batte durante le commemorazioni del giorno prima.
Forse le parole di Sepulveda “Non serve a niente una porta chiusa. La tristezza non può uscire e l’allegria non può entrare” mi hanno guidato a una visione olistica dell’appartenenza. Questo mio dualismo ha radici tanto forti da assomigliare alle stesse che rendono unici alcuni ulivi millenari della Puglia, la terra che mi ha dato i natali. La mia individualità ha preso forma e con il suo micro tassello contribuisce a comporre la Storia. A decifrare l’umanità.
24 Aprile 1915 – il primo sterminio del Novecento perpetrato dai Giovani turchi dell’Impero ottomano inghiottito dagli archivi storici per decenni, volutamente ignorato. Il popolo armeno, schiacciato per quasi un secolo tra il “politically correct” e il “commercially necessary”. Poi, qualche concessione di timidi cenni qua e là fino al suo riconoscimento da parte di molti Stati.
Ma questa mia solitaria dissertazione non vuole essere di stampo geopolitico. Tutt’altro. È il senso di umanità che mi spinge a domandarmi perché non si parli mai degli Indiani d’America – ne sono rimasti un pugno, diceva un giornalista russo, giusto da utilizzare nei western hollywoodiani. Perché sono pochi quelli che conoscono la tragedia del Ruanda, troppi quelli che hanno già dimenticato l’ex Jugoslavia. Quanti si ricordano degli Incas, degli Aborigini… l’elenco è dolorosamente lungo.
“Chi mai si ricorda oggi degli Armeni?” avrebbe domandato Hitler ai consiglieri che cercavano di dissuaderlo dal suo folle piano. E venne la Shoah. La proliferazione di testimonianze sull’Olocausto è un’operazione encomiabile. Un “Per non dimenticare” doveroso. Guai se così non fosse. Perché di un abominio si è trattato. Senza se (se gli ebrei…) e senza ma (ma anche Stalin…).
Tuttavia, i promotori delle numerose iniziative che si adoperano per ricordare lo sterminio del popolo ebreo dovrebbero dare spazio a La Storia, e non a una storia. Il diffusore di cultura monotematica rischia di scivolare nell’autoreferenzialità, di sembrare uno studioso a metà, e si sa: “Half knowledge is a dangerous thing“. Difficile da tradurre, ma non altrettanto da comprendere. Potrebbe anche trattarsi di ignoranza, ovvero di ignorare i genocidi che hanno preceduto l’Olocausto e quelli che lo hanno succeduto. Escludiamo infatti il dolo, ma non la colpa. La propaganda non lascia spazio alla verità. Di conseguenza, neppure alla giustizia.
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