Capita che un centro oli, un impianto di estrazione del petrolio, inizi a “perdere liquidi” ad agosto del 2016. Liquidi che, fatalmente, si disperdono nell’ambiente circostante, più precisamente nel sottosuolo. Succede che la perdita prosegua fino a novembre dello stesso anno, sino a raggiungere l’interessante cifra di 400 tonnellate di petrolio sversato. Accade che l’ente (l’Eni) che gestisce l’impianto in questione (il Centro Oli Val d’Agri, Cova, di Viggiano) riveli la lieta novella solo mesi dopo, incidentalmente, a un tavolo tecnico convocato dal governo.

Capita, però, che una norma del cosiddetto Codice dell’ambiente (D. Lvo. 152\2006) statuisca che “al verificarsi di un evento che sia potenzialmente in grado di contaminare il sito, il responsabile dell’inquinamento mette in opera entro 24 ore le misure necessarie di prevenzione e ne dà immediata comunicazione ai sensi e con le modalità di cui all’articolo 304, comma 2” (articolo 242). L’obbligo di immediata comunicazione è coperto da tutela penale: il trasgressore commette un reato ed “è punito con la pena dell’arresto da tre mesi a un anno o con l’ammenda da mille euro a 26mila euro” (articolo 257).

Per inciso, siccome in questo Paese, per parafrasare il Maestro, la situazione politica è sistematicamente grave ma non è seria – specie quando si tratta di ambiente – si verifica anche che l’allora ministro dell’Ambiente Gian Luca Galletti, intervistato all’epoca sulla questione, alla domanda su che tipo di provvedimenti intendesse assumere nella vicenda, dichiari, restando serio, che il “suo ministero non ha competenze sul Cova perché il titolo V della Costituzione non gliele assegna” (sic!).

Ci sarebbero alcune norme del nostro ordinamento, discretamente cogenti, che non sembrerebbero proprio d’accordo con l’autorevole ex statista: tipo il su citato articolo 304 del cosiddetto Testo Unico Ambiente, per non dire dello stesso titolo V della Carta, nel quale si trovano previsioni del genere: “lo Stato ha legislazione esclusiva” in materia di “tutela dell’ambiente, dell’ecosistema e dei beni culturali” (articolo 117). Ma sono solo, rispettivamente, la legge fondamentale in materia ambientale e la Costituzione della Repubblica, sulla quale, per inciso, giurano i ministri: che vuoi che sia! Ennesima dimostrazione che, negli ultimi 25 anni, in questo Paese, alla tutela dell’ambiente non è stato risparmiato veramente nulla. A partire dal Ministero preposto istituzionalmente a quella tutela, per l’appunto.

Per tornare alla vicenda principale, non occorreva un particolare fiuto investigativo per intuire che essa potesse contenere qualche profilo penale. Chi scrive, in assenza di specifici elementi di conoscenza della storia, in un post dell’epoca si era limitato, prudenzialmente, a evocare solo l’illecito previsto dallo stesso articolo 257. Legambiente, invece, era andata giù decisamente più dura: aveva formalizzato un esposto, invocando direttamente l’applicabilità dell’allora nuova normativa in materia di ecodelitti. E aveva presentato quell’iniziativa giudiziaria in un apposito convegno organizzato proprio a Viggiano.

I fatti di ieri sono noti, e le notizie di oggi sul merito dell’ordinanza cautelare del Gip di Potenza (emessa in un procedimento nato proprio da quell’esposto) ancor più illuminanti. Secondo la Procura e un Gip di Potenza, la condotta dei gestori dell’impianto lucano non integra solo una contravvenzione in materia di violazione di obblighi di comunicazione dell’evento inquinante, ma il delitto di disastro ambientale. Con qualche altra chicca di contorno a carico di soggetti appartenenti ai sedicenti “enti di controllo”, tipo abuso di ufficio e falso ideologico: relativi ai mancati controlli e\o sanzioni a carico di quegli stessi responsabili del Cova, ça va sans dire. Ogni indagato è presunto non colpevole fino alla sentenza definitiva e i fatti di un procedimento penale vengono accertati solo nel dibattimento, che in questo caso è ancora di là da venire.

Fatte queste non rituali precisazioni, a quanto pare, per il momento, ha avuto ragione Legambiente. Ma, soprattutto, sembra che non abbiano avuto tutti i torti coloro che, proprio in questi giorni di quattro anni fa, si spendevano per far approvare una legge che desse almeno la credibile speranza di una tutela penale dell’ambiente, dunque della salute, in questo Paese, finalmente seria: la legge “ecoreati” (l. 68\2015), per l’appunto. Quella che ha introdotto nel nostro ordinamento, tra gli altri, proprio il delitto di disastro ambientale, oggi contestato agli indagati del procedimento di Potenza.

Quella legge presenta indubitabilmente difetti e imperfezioni. E bisognerà attendere che essa passi al vaglio della giurisprudenza in sede di cognizione per capire se e come funziona davvero. Ma – stando a notizie come quelle che provengono dalla Basilicata, ma soprattutto all’orientamento ormai consolidato della Corte di Cassazione in sede cautelare – questa riforma un merito difficilmente contestabile ce l’ha già: qualifica anche da un punto di vista penalistico come inquinamento o come disastro ambientale fatti che tali sono nel sentire comune, nonché, soprattutto, nell’analisi scientifica. E permette di celebrare un procedimento penale su queste basi, giuridiche e scientifiche; trattando di conseguenza i relativi autori. Dopo decenni di scempi massivi e di stupri seriali alle matrici ambientali e agli ecosistemi inquadrati giuridicamente come “getto pericoloso di cose” (articolo 674 c.p.; pena: arresto fino a un mese o ammenda di 206 euro), non è davvero risultato da poco.

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