Anche se finora esclusa, l’opzione di un intervento militare in Venezuela, ventilata dagli Stati Uniti di Donald Trump, rimane comunque sul tavolo come extrema ratio. Quella di agire militarmente in America Latina non è certo una novità per gli americani, anzi. Uno studio pubblicato nel 2005 da John Coatsworth, docente dell’università di Harvard, e tornato a circolare sui media sudamericani in questi giorni ha calcolato come tra il 1898 e 1994 gli Stati Uniti siano intervenuti ufficialmente per cambiare i governi dell’America Latina in ben 41 occasioni, cioé una volta ogni 2,5 anni quasi. In quasi tutti i casi gli interventi sono iniziati ai primi del ‘900, continuati poi per tutto il secolo, e spesso presentati come l’unica soluzione per risolvere le loro crisi interne o proteggere gli interessi dei cittadini Usa che vivevano lì.
Uno dei casi più noti è quello di Cuba. Impegnata dal 1895 nella guerra di indipendenza contro la Spagna, l’isola caraibica vide partecipare anche gli Stati Uniti alla cosiddetta guerra ispano-statunitense del 1898. Ci fu un governo militare americano di quattro anni nell’isola, ma la sua influenza, anche grazie alla base navale di Guantanamo, aumentò nel tempo. Le forze armate Usa furono chiamate nel 1906 dal governo cubano di Estrada Palma per far fronte ad un’insurrezione interna, e tornarono nuovamente nel 1917 con lo sbarco dei marines.
Panama è un altro dei paesi latinoamericani la cui storia si è incrociata parecchie volte con il gigante nordamericano. Nel 1903 l’intervento di Washington fu determinante per aiutare il paese a separarsi dalla Colombia, di cui faceva parte, e per cui ricevette in cambio 16 chilometri nella zona del canale in concessione perpetua, lasciando così il paese fisicamente diviso in due, fino al 1999 quando recuperò la sovranità sul suo territorio. Nel 1989 gli Usa bombardarono Città di Panama per catturare il generale Manuel Antonio Noriega, governatore di fatto del Paese, accusato di narcotraffico, uccidendo tra i 500 e 4000 civili (a seconda delle fonti).
In Nicaragua l’intervento americano è stato ancora più pesante e continuo. Iniziato di fatto nel 1900 con l’appoggio alla rivolta contro il presidente José Santos Zelaya, è poi continuato con lo sbarco dei marines nel 1910 dopo l’esecuzione di due cittadini americani, ed è continuato sostenendo sempre i conservatori al governo. Nel 1927 furono inviati di nuovo soldati per la guerra civile seguita al golpe del generale conservatore Emiliano Chamorro, in cui affrontarono il movimento guerrigliero di Augusto César Sandino, contrario all’occupazione Usa. Nel 1933 finì la ribellione e gli americani andarono via, lasciando Anastasio Somoza a capo della Guarda nazionale creata da Washington, come unica forza armata del paese. Sandino fu assassinato nel 1934, mentre il presidente Juan Batista Sacasa fu rovesciato da Anastasio Somoza, che rimase al potere per quasi 20 anni, con l’appoggio degli Usa.
Interventi si sono verificati anche in Messico, Repubblica Dominicana, Granada e Haiti, ultimo scenario di un intervento diretto degli Stati Uniti. Anche in quest’ultimo caso furono i marines a sbarcare nel 1915, e l’intromissione degli Usa durò fino al 1934. Poi nel 1994 Washington ha guidato la coalizione internazionale e le forze militari che invasero l’isola, riuscendo a convincere il governo militare, che aveva preso il potere nel ’91, a lasciarlo e indire nuove elezioni. Il Guatemala invece subì un colpo di Stato nel 1954 per via di un’operazione orchestrata dalla Cia per far cadere il presidente Jacobo Árbenz Guzmán, ‘colpevole’ di aver avviato politiche considerate comuniste dagli Usa, come la riforma agraria e le espropriazioni che danneggiavano la United Fruit Company.
E questi sono solo i casi di intervento diretto ‘ufficiale e riuscito’. Ci sono poi da aggiungere quelli (non citati nell’articolo di Harvard) falliti in cui gli Usa hanno tentato di deporre un governo, come nella Baia dei porci a Cuba nel 1961, e i 27 interventi ‘indiretti’, in cui hanno appoggiato ‘attori’ locali, come con il golpe militare in Cile di Augusto Pinochet contro Salvador Allende nel 1973. Le cose non sembrano cambiate molto dunque, da quando James Monroe proclamò nel 1823 il diritto per gli Stati Uniti di intervenire per stabilizzare gli stati deboli nelle Americhe, poi rafforzato da Theodore Roosevelt con il suo corollario, che rafforzò ulteriormente l’egemonia regionale statunitense, e infine dalla visione di Woodrow Wilson di diffusione della democrazia e della pace sotto l’egida americana.
Mondo
Il Venezuela e l’opzione dell’intervento militare Usa: “Rovesciarono 41 governi in Sudamerica”
Tra il 1898 e 1994 gli Stati Uniti sono intervenuti ufficialmente per cambiare un esecutivo in America Latina. Lo dice una ricerca pubblicata nel 2005 da John Coatsworth, docente dell'università di Harvard, e tornata a circolare sui media sudamericani. In quasi tutti i casi gli interventi sono iniziati ai primi del '900, continuati poi per tutto il secolo
Anche se finora esclusa, l’opzione di un intervento militare in Venezuela, ventilata dagli Stati Uniti di Donald Trump, rimane comunque sul tavolo come extrema ratio. Quella di agire militarmente in America Latina non è certo una novità per gli americani, anzi. Uno studio pubblicato nel 2005 da John Coatsworth, docente dell’università di Harvard, e tornato a circolare sui media sudamericani in questi giorni ha calcolato come tra il 1898 e 1994 gli Stati Uniti siano intervenuti ufficialmente per cambiare i governi dell’America Latina in ben 41 occasioni, cioé una volta ogni 2,5 anni quasi. In quasi tutti i casi gli interventi sono iniziati ai primi del ‘900, continuati poi per tutto il secolo, e spesso presentati come l’unica soluzione per risolvere le loro crisi interne o proteggere gli interessi dei cittadini Usa che vivevano lì.
Uno dei casi più noti è quello di Cuba. Impegnata dal 1895 nella guerra di indipendenza contro la Spagna, l’isola caraibica vide partecipare anche gli Stati Uniti alla cosiddetta guerra ispano-statunitense del 1898. Ci fu un governo militare americano di quattro anni nell’isola, ma la sua influenza, anche grazie alla base navale di Guantanamo, aumentò nel tempo. Le forze armate Usa furono chiamate nel 1906 dal governo cubano di Estrada Palma per far fronte ad un’insurrezione interna, e tornarono nuovamente nel 1917 con lo sbarco dei marines.
Panama è un altro dei paesi latinoamericani la cui storia si è incrociata parecchie volte con il gigante nordamericano. Nel 1903 l’intervento di Washington fu determinante per aiutare il paese a separarsi dalla Colombia, di cui faceva parte, e per cui ricevette in cambio 16 chilometri nella zona del canale in concessione perpetua, lasciando così il paese fisicamente diviso in due, fino al 1999 quando recuperò la sovranità sul suo territorio. Nel 1989 gli Usa bombardarono Città di Panama per catturare il generale Manuel Antonio Noriega, governatore di fatto del Paese, accusato di narcotraffico, uccidendo tra i 500 e 4000 civili (a seconda delle fonti).
In Nicaragua l’intervento americano è stato ancora più pesante e continuo. Iniziato di fatto nel 1900 con l’appoggio alla rivolta contro il presidente José Santos Zelaya, è poi continuato con lo sbarco dei marines nel 1910 dopo l’esecuzione di due cittadini americani, ed è continuato sostenendo sempre i conservatori al governo. Nel 1927 furono inviati di nuovo soldati per la guerra civile seguita al golpe del generale conservatore Emiliano Chamorro, in cui affrontarono il movimento guerrigliero di Augusto César Sandino, contrario all’occupazione Usa. Nel 1933 finì la ribellione e gli americani andarono via, lasciando Anastasio Somoza a capo della Guarda nazionale creata da Washington, come unica forza armata del paese. Sandino fu assassinato nel 1934, mentre il presidente Juan Batista Sacasa fu rovesciato da Anastasio Somoza, che rimase al potere per quasi 20 anni, con l’appoggio degli Usa.
Interventi si sono verificati anche in Messico, Repubblica Dominicana, Granada e Haiti, ultimo scenario di un intervento diretto degli Stati Uniti. Anche in quest’ultimo caso furono i marines a sbarcare nel 1915, e l’intromissione degli Usa durò fino al 1934. Poi nel 1994 Washington ha guidato la coalizione internazionale e le forze militari che invasero l’isola, riuscendo a convincere il governo militare, che aveva preso il potere nel ’91, a lasciarlo e indire nuove elezioni. Il Guatemala invece subì un colpo di Stato nel 1954 per via di un’operazione orchestrata dalla Cia per far cadere il presidente Jacobo Árbenz Guzmán, ‘colpevole’ di aver avviato politiche considerate comuniste dagli Usa, come la riforma agraria e le espropriazioni che danneggiavano la United Fruit Company.
E questi sono solo i casi di intervento diretto ‘ufficiale e riuscito’. Ci sono poi da aggiungere quelli (non citati nell’articolo di Harvard) falliti in cui gli Usa hanno tentato di deporre un governo, come nella Baia dei porci a Cuba nel 1961, e i 27 interventi ‘indiretti’, in cui hanno appoggiato ‘attori’ locali, come con il golpe militare in Cile di Augusto Pinochet contro Salvador Allende nel 1973. Le cose non sembrano cambiate molto dunque, da quando James Monroe proclamò nel 1823 il diritto per gli Stati Uniti di intervenire per stabilizzare gli stati deboli nelle Americhe, poi rafforzato da Theodore Roosevelt con il suo corollario, che rafforzò ulteriormente l’egemonia regionale statunitense, e infine dalla visione di Woodrow Wilson di diffusione della democrazia e della pace sotto l’egida americana.
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Roma, 22 feb. (Adnkronos) - Standing ovation dalla platea della convention Cpac a Washington al termine dell'intervento video della premier Giorgia Meloni. Un intervento nel quale la presidente del Consiglio ha richiamato valori e temi che uniscono conservatori europei e americani, a partire dalla difesa dei confini, ribadendo la solidità del legame tra Usa e Ue. "I nostri avversari - ha detto Meloni- sperano che il presidente Trump si allontani da noi. Ma conoscendolo come un leader forte ed efficace, scommetto che coloro che sperano nelle divisioni si smentiranno".
"So che alcuni di voi potrebbero vedere l'Europa come lontana o addirittura lontana o addirittura perduta. Vi dico che non lo è. Sì, sono stati commessi degli errori. Le priorità sono state mal riposte, soprattutto a causa delle classi dominanti e dei media mainstream che hanno importato e replicato nel Vecchio Continente", ha affermato la premier.
La presidente Meloni ha fatto un passaggio sull'Ucraina ribadendo "la brutale aggressione" subito dal popolo ucraino e confidando nella collaborazione con gli Usa per raggiungere una "pace giusta e duratura" che, ha sottolineato, "può essere costruita solo con il contributo di tutti, ma soprattutto con forti leadership".
Roma, 22 feb. (Adnkronos) - Le "elite di sinistra" si sono "recentemente indignate per il discorso di JD Vance a Monaco in cui il vicepresidente ha giustamente affermato che prima di discutere di sicurezza, dobbiamo sapere cosa stiamo difendendo. Non stava parlando di tariffe o bilance commerciali su cui ognuno difenderà i propri interessi preservando la nostra amicizia". Mo ha sottolineato la premier Giorgia Meloni nel suo intervento al Cpac.
"Il vicepresidente Vance stava discutendo di identità, democrazia, libertà di parola. In breve, il ruolo storico e la missione dell'Europa. Molti hanno finto di essere indignati, invocando l'orgoglio europeo contro un americano che osa farci la predica. Ma lasciate che ve lo dica io, da persona orgogliosa di essere europea - ha detto ancora - Innanzitutto, se coloro che si sono indignati avessero mostrato lo stesso orgoglio quando l'Europa ha perso la sua autonomia strategica, legando la sua economia a regimi autocratici, o quando i confini europei e il nostro stile di vita sono stati minacciati dall'immigrazione illegale di massa, ora vivremmo in un'Europa più forte".
(Adnkronos) - "I nostri avversari - ha detto Meloni- sperano che il presidente Trump si allontani da noi. Ma conoscendolo come un leader forte ed efficace, scommetto che coloro che sperano nelle divisioni si smentiranno. So che alcuni di voi potrebbero vedere l'Europa come lontana o addirittura lontana o addirittura perduta".
"Vi dico che non lo è. Sì, sono stati commessi degli errori. Le priorità sono state mal riposte, soprattutto a causa delle classi dominanti e dei media mainstream che hanno importato e replicato nel Vecchio Continente".
Roma, 22 feb. (Adnkronos) - "So che con Donald Trump alla guida degli Stati Uniti, non vedremo mai più il disastro che abbiamo visto in Afghanistan quattro anni fa. Quindi sicurezza delle frontiere, sicurezza delle frontiere, sicurezza energetica, sicurezza economica, sicurezza alimentare, difesa e sicurezza nazionale per una semplice ragione. Se non sei sicuro, non sei libero". Lo ha detto la premier Giorgia Meloni in un messaggio al Cpac.
Roma, 22 feb. (Adnkronos) - "C'è una crescente consapevolezza. C'è una crescente consapevolezza in Europa che la sicurezza è ora la massima priorità. Non puoi difendere la tua libertà se non hai i mezzi o il coraggio per farlo. La felicità dipende dalla libertà e la libertà dipende dal coraggio. Lo abbiamo dimostrato quando abbiamo fermato le invasioni, conquistato le nostre indipendenze e rovesciato i dittatori". Così la premier Giorgia Meloni in un messaggio al Cpac.
"E lo abbiamo fatto insieme negli ultimi tre anni in Ucraina, dove un popolo orgoglioso combatte per la propria libertà contro un'aggressione brutale. E dobbiamo continuare oggi a lavorare insieme per una pace giusta e duratura. Una pace che può essere costruita solo con il contributo di tutti, ma soprattutto con forti leadership".
Roma, 22 feb. (Adnkronos) - In Ucraina "un popolo coraggioso combatte contro una brutale aggressione". Lo ha detto la premier Giorgia Meloni al Cpac.
Roma, 22 feb. (Adnkronos) - "I nostri avversari sperano che Trump si allontani da noi. Io lo conosco, e scommetto che dimostreremo che si sbagliano. Qualcuno può vedere l'Europa come distante, lontana. Io vi dico: non è così". Lo ha detto la premier Giorgia Meloni in un messaggio alla convention Cpac a Washington.