Nel libro "Con l'anima di traverso" (Solferino) la giornalista Zita Dazzi raccoglie la testimonianza di Laura Wronowski e la immagina dialogare con la 13enne Tecla. Dalla foto dello zio ucciso dai fascisti nel 1924 che le ha influenzato tutta la vita alla lettera "sulla democrazia" che indirizza alla sua nuova amica
Di fronte al fascismo, nessun compromesso. La schiena sempre dritta, anche se si ha fame e il prezzo da pagare è molto alto. La libertà come ideale. Pure quando è una fatica e sarebbe più facile stare in silenzio e annuire con il gregge. Quando la partigiana Laura Wronowski, nipote di Giacomo Matteotti e il cui padrino fu addirittura Ferruccio Parri, racconta la sua storia a Tecla che di anni ne ha solo 13 fa una scelta: non nascondere niente. Prende i sentimenti e li mette in fila: il dolore, la paura e la morte di un amore scomparso prima che la guerra finisse davvero. Quindi il freddo del fucile in mano, sapendo come sparare ma senza farlo mai. Lei, giornalista figlia di un giornalista del Corriere della sera che fu radiato dall’ordine perché antifascista, tradisce il mestiere di chi sa come colpire la mente fertile di una ragazza di un tempo che non è già più il suo: mettendo in fila i fatti. Tecla la ascolta con gli occhi sgranati e rimane impigliata nella storia. Che è di un’altra, ma potrebbe essere la sua. Sono due donne, due generazioni, due universi che provano a parlare la stessa lingua e troppo spesso neppure si capiscono.
A metterle sedute nello stesso salotto nel centro di Milano è stata la giornalista e scrittrice Zita Dazzi. Lo ha fatto con un libro “Con l’anima di traverso”, pubblicato da Solferino: il titolo è una citazione di Laura, che si definisce proprio così, “nata con l’anima di traverso”, perché da vera ribelle porta la croce di chi è sempre stato contro la corrente e ne ha pagato solitudini e onori. Di fronte a lei c’è Tecla che invece non esiste, o meglio ne esistono infinite versioni: è la figlia di un oggi che presto sarà orfano delle testimoni di una lotta per la Resistenza che ha fatto l’Italia. Servivano orecchie fresche per una storia tanto stanca e così ammaccata ai giorni nostri. Dazzi non si è inventata niente: lei, giornalista di Repubblica, dal 2017 gira per le scuole d’Italia con il romanzo “La valigia di Adou” e incontra ogni anno decine di ragazzi. “I nostri giovani cercano il confronto”, spiega Dazzi. “Esiste una breccia nel disinteresse. E’ da lì che bisogna partire in tempi così difficili. Possiamo dare modelli alternativi e farlo anche con un po’ di leggerezza, senza fare la morale”.
Così fa Laura, mentre parla a una ragazzina che potrebbe essere lei 80 anni fa. Lo fa con la lingua semplice e pura di chi non ha bisogno di fronzoli o sentenze per raccontare da che parte stava. Sul comò, ieri come oggi, c’è la foto dello zio Giacomo Matteotti, il deputato socialista ucciso dai fascisti nel 1924. “Io non l’ho mai conosciuto”, dice. Eppure è stata la figura che più ha influenzato la sua vita. “Mia madre ci parlava sempre di lui come di un mito, un punto di riferimento dal quale non si poteva prescindere, né noi, né nessun altro. E’ stata la prima cosa che ho imparato”. Anche qui Tecla ascolta, chiede come fosse quel Matteotti di cui ha letto solo sui libri di scuola: “Un uomo sportivo che amava tantissimo la sua famiglia”, dice Laura. “Noi eravamo i parenti di Matteotti. Tutti lo sapevano”. Un marchio che fin da subito ha voluto dire solitudine e discriminazioni. “I genitori senza lavoro e senza soldi, noi ragazzi che non potevamo andare a scuola perché non indossavamo la divisa fascista e non cantavamo le canzoni fasciste. E ci sarebbe pure mancato che lo facessimo”. Il punto è che, continua Laura, “non esisteva compromettersi col regime, anche se eravamo squattrinati e nei guai”. La sua mamma in una lettera del tempo scrive alla sorella, nonché moglie di Matteotti: “Non intendo per me e per i miei figli intingere il pane quotidiano nel sangue della Quartarella (il luogo dove venne trovato il cadavere del deputato ndr)”. Parole che Laura non ha mai dimenticato e che racconta a Tecla per far capire quella che per tutti dovrebbe essere una necessità: scegliere una parte e starci fino in fondo a qualsiasi costo. Anche per quello la partigiana sale sui monti e combatte fino alla liberazione con le brigate Giustizia e Libertà di Ferruccio Parri.
Di Laura, per noi che ascoltiamo come Tecla, resta la concretezza. Delle conquiste, come delle critiche sull’oggi. Parole che raccoglie in una lettera finale alla sua nuova amica, dal titolo: “Sulla democrazia”. Zita Dazzi la mette lì come un testamento, come un appello per chi c’è ora. “A vent’anni col mitra in mano sognavo di ricostruire l’Italia, ci credevo”, attacca la partigiana. “A vent’anni sognavo la democrazia pura negli intenti e nei comportamenti, ma oggi è un’altra cosa”. “Carissima Tecla”, dice Laura, “l’Italia di oggi è incapace di portare avanti le riforme, di mettere in atto i diritti e i principi costituzionali, i valori della Resistenza che hanno plasmato il nostro ordinamento”. La sua è amarezza per un sogno che ha dovuto fare i conti con una società che ancora non ne è stata all’altezza. “Abbiamo fatto passi da gigante ma pensavamo di ottenere di più”. “Manca ancora la comprensione vera della necessità di essere totalmente onesti quando si è nella res pubblica”. E’ un tempo di individualismo, di gente che “osa rivendicarsi fascista” nonostante le lotte e le battaglie, è un tempo dove spesso trionfa solo il vuoto. “La libertà oggi sembra acquisita, ma in realtà dobbiamo ancora imparare che cosa sia veramente. E’ difficile da gestire”, scrive ancora. “La libertà comporta una lotta, non tutti sono pronti ad affrontarla”. Sceglie un saluto che è anche il suo augurio: “Viva la libertà e la Costituzione”. Firmato la tua, la nostra, amica Laura.