Cultura

25 aprile, le bufale del fascismo: pensioni, bonifiche, case, stipendi. Le cose buone che Mussolini non ha mai fatto

Nel tempo della storiografia da bar - ultimo Tajani - un libro dello storico Francesco Filippi smonta tutte le "fake news" costruite dal fascismo e che dopo quasi cent'anni resistono ancora sui social. Tra conferme (come sulla storiella dei fascisti onesti) e sorprese (il disastro della ricostruzione dopo un sisma in Lucania). Ma perché? "Pensare a un passato positivo lascia una speranza a chi è scontento del presente"

di Diego Pretini

Le cose buone che Mussolini ha fatto non esistono. Ha fatto cose infami, come le leggi razziali, preso decisioni scellerate, come l’ingresso in una guerra che fu subito una disfatta, cancellato (quell’assaggio di) libertà e democrazia. Ma se si rovista in mezzo al resto non ci sono cose buone. Di sicuro non le cose buone che gli vengono attribuite, con conferimento d’onori alla memoria (scarsa) e con la insinuante forza del sentito dire, ripetuto a filastrocca, con indolenza, per passaparola, che ora può contare su un’iniezione di velocità ed efficacia, grazie alle reti sociali. Eppure non sono buone nemmeno le cose che sono pronti a riconoscere, ad ammettere, quasi tutti: nemmeno la bonifica delle paludi, nemmeno le pensioni. L’operazione di smontaggio delle storielle sui presunti meriti residui del dittatore che ha trascinato il Paese al disastro militare, politico, economico, morale e umano è la base di Mussolini ha fatto anche cose buone, scritto dallo storico Francesco Filippi (Bollati Boringhieri, 160 pagg., 12 euro). E’ come un pamphlet ma un po’ più lungo, è come un saggio ma più ruvido perché non gira intorno alle cose, consuma le edizioni una dopo l’altra, le librerie lo tengono direttamente di fianco alle casse. Un po’ perché è il periodo giusto (quello di una rivalorizzazione dei toni antifascisti dovuta alla cronaca, dal Mediterraneo a Torre Maura) e un po’ perché, appunto, è come una frustata. Uno schiaffo, a partire dal sottotitolo: “Le idiozie che continuano a circolare sul fascismo”. Una scrollata utile a svegliarsi dall’assuefazione, dal lasciar dire. Un “manuale di autodifesa”, come scrive nella prefazione lo storico Carlo Greppi (sotto i 40 come Filippi), autodifesa contro il fenomeno che è davanti agli occhi di tutti, tutti i giorni: “Centinaia di migliaia di persone che esprimono il loro apprezzamento e condividono compulsivamente balle colossali, balle che il fascismo mise in circolazione nella prima metà del secolo scorso, intestandosi risultati altrui o truccando la realtà”. “Gli storici”, aggiunge Greppi, hanno “prodotto un incessante lavorio di demolizione del ‘mito’ del fascismo buono. Ma, come si dice, non c’è più sordo di chi non vuol sentire”.

La storiografia da bar, da Salvini a Tajani
La pena aumenta quando la storiografia da bar diventa linguaggio pubblico, politico, come dimostra il concionare di tutti i principali leader del centrodestra, da Berlusconi a Salvini, passando per il presidente del Parlamento europeo, Antonio Tajani, l’ultimo a straparlare. Come cocorite, hanno imparato una frase imparata non si sa dove e iniettata a lento rilascio nell’immaginario falsato della cittadinanza. Salvini, 2016: “Mussolini fece tante cose buone in vent’anni, prima delle leggi razziali e dell’alleanza con Hitler. Fu Mussolini a introdurre la pensione di reversibilità per garantire la natalità nel caso morissero lui o lei. La previdenza sociale l’ha portata Mussolini, non l’hanno portata i marziani. In 20 anni, prima della folle alleanza con Hitler e delle leggi razziali, delle cose giuste le fece sicuramente: stiamo parlando di pensioni, poi le bonifiche. C’erano intere città, come Latina, che erano paludi”. Tajani, 2019: “Io non sono fascista, non sono mai stato fascista e non condivido il suo pensiero politico però se bisogna essere onesti, ha fatto strade, ponti, edifici, impianti sportivi, ha bonificato tante parti della nostra Italia, l’istituto per la ricostruzione industriale”. E’ la zona grigia del riduzionismo, come l’ha chiamata tempo fa Ezio Mauro: non c’è bisogno di essere fascisti per rivalutare il fascismo.

Infps, l’unica riforma del fascismo fu il nome (e la f non è un refuso)
In effetti il ministro Salvini aveva ragione: la previdenza sociale in Italia non l’hanno portata i marziani. Ma nemmeno Mussolini e il fascismo. Come ricostruisce Filippi nel libro, il primo sistema di garanzie pensionistiche – destinato ai soli impiegati del pubblico e ai militari – è del 1895, governo Crispi. Tre anni dopo il governo Pelloux estenderà le coperture a una serie di categorie lavorative e fonderà il primo istituto antenato dell’Inps. Infine nel 1919, governo liberale di Vittorio Emanuele Orlando, il sistema viene “imposto a tutte le aziende come obbligatorio: da quel momento tutti i lavoratori italiani ebbero per diritto la pensione”.

E il fascismo? Quando prende il potere si preoccupa – abolito il ministero del Lavoro – di concentrare tutte le funzioni che hanno a che fare con il welfare sotto la Cassa Nazionale col risultato di provocare “l’appesantimento del sistema e la sua progressiva inefficienza”, sottolinea Filippi. E poi, nel 1933, una riforma imponente: cambia il nome all’istituto, che diventa Infps, con la effe che deve fare da neon da insegna. “Un tentativo propagandistico – spiega Filippi – di impossessarsi di quello che nei fatti era stato il frutto di decenni di contrattazioni e lotte sindacali, di riforme attuate dai governi liberali e di iniziative delle associazioni di categoria dei lavoratori”. Nel frattempo quel che fa davvero il fascismo per i lavoratori è, nel 1926, stabilire che potevano esistere solo sindacati fascisti e vietare lo sciopero e la serrata, mettendo sotto giogo in un colpo solo i lavoratori e gli imprenditori. L’Infps negli anni diventerà una macchina da stipendi, uno sfogatoio per le clientele e quindi un produttore di consenso.

Le bonifiche, una scomoda verità
Littoria, il simbolo del miracolo, la città fondata sulle terre strappate all’acqua, l’orgoglio della potenza fascista che nel 1933 dichiara la propria vittoria: la missione impossibile delle bonifiche, perfino nell’Agro Pontino, è compiuta. Lì dove sono caduti tutti, il fascismo è riuscito. Ma è un racconto possibile solo grazie a una “grande operazione pubblicitaria”, obietta lo storico Francesco Filippi nel libro. La realtà la dicono i numeri che danno conto piuttosto di una serie di fallimenti, a dispetto delle convinzioni falsificate. Il fascismo, rimarca Filippi, aveva promesso di restituire all’agricoltura 8 milioni di ettari di terreni riqualificati: un’enormità. Dopo dieci anni di lavori più tentati che andati a segno e fiumi di denaro pubblico finiti come accade sempre con il fascismo a amici degli amici e collettori di consenso del regime (come l’Opera nazionale combattenti), il governo annuncia il successo del recupero di 4 milioni di ettari. E’ comunque tanto, qua la mano: medaglia. Ma Filippi indaga sui particolari e scopre che i lavori “completi o a buon punto” arrivano a poco più di 2 milioni di ettari. E – bluff nel bluff – “di questi due milioni, un milione e mezzo erano bonifiche concluse dai governi precedenti al 1922”. Insomma, non dal fascismo. “In pratica – conclude Filippi – era stato portato a termine poco più del 6 per cento del lavoro”. E’ De Felice, uno dei più autorevoli storici del fascismo, a certificare – ricorda Filippi – che i risultati, nel complesso, furono inferiori “alle aspettative suscitate nel Paese dal battage propagandistico messo in atto e finirono per non corrispondere all’entità dello sforzo economico sostenuto”. A riuscirci saranno poi i governi del Dopoguerra, grazie ai fondi del Piano Marshall e della Cassa del Mezzogiorno.

https://youtu.be/QZhk9wpDDss

Il fascismo immobiliare
Le case agli italiani!, gridano oggi i fascisti nelle periferie di Roma. Ma se aspettavano Mussolini, stavano freschi. La prima legge sulle case popolari infatti è del 1903, per iniziativa di Luigi Luzzatti, deputato liberale che poi sarà presidente del Consiglio. I maggiori progetti di sviluppo urbano nelle grandi città con fame di abitazioni nascono tutti nei primi 15-20 anni del Novecento: Roma (la Garbatella per esempio), Torino, Napoli, Milano. L’unico tocco “decisivo” del fascismo, nel 1935, è quello di gestire il sistema a livello provinciale. Annota ancora Filippi: “Come in altri campi della cosa pubblica, anche nell’edilizia popolare il fascismo si limitò a porre sotto il proprio controllo e ribattezzare strutture amministrative nate nell’Italia liberale”. Viceversa, a fronte di grandi progetti colossali come l’Eur, “la situazione abitativa” rimase “emergenziale anche negli anni più tardi del fascismo”. E la carenza di alloggi fu aggravata dalla decisione di Mussolini di portare l’Italia in una guerra mondiale, il che provocò com’è evidente la rinuncia alle case che invece c’erano: due milioni di vani andarono distrutti e un altro milione fu danneggiato, sintetizza Filippi.

L’oro alla patria. E agli italiani niente
Ma era meglio quando si stava peggio. E invece no. Come spiega Filippi, durante il Ventennio fascista, il divario della ricchezza media tra un italiano e un cittadino degli altri Paesi sviluppati si allargò. Un po’ per colpa della congiuntura internazionale (la crisi del ’29), un po’ per i problemi strutturali, ma anche perché “tutte le iniziative prese” dai governi di Mussolini “contribuirono a peggiorare la situazione”. Un effetto fu la divaricazione delle disuguaglianze: i ricconi, quasi tutti aderenti al regime, da una parte e la massa della popolazione dall’altra. Unica via d’uscita: l’emigrazione. E’ meglio ora, che si sta meglio di quando si stava peggio, e scusate l’ovvietà: oggi, ricorda ancora Filippi, il reddito medio italiano è circa il 90 per cento di un Paese europeo avanzato come la Francia. Negli anni Trenta era il 33.

Smascherare il Duce (e le sue bufale vecchie cent’anni)
Mussolini ha fatto cose buone spoglia dunque il Duce di tutti i suoi camuffamenti: previdente, bonificatore, costruttore, legalitario, economista, condottiero o perfino femminista. In alcuni casi ribadire è necessario, ma più semplice: come sulla presunta legalità di un partito che si è fatto spazio anche con le manganellate agli avversari e poi ha fondato il potere su clientele e corruzioni (con tanto di morto ammazzato – Giacomo Matteotti – in possesso di documenti su una tangente che toccava il fratello di Mussolini, Arnaldo). O come per la propaganda per la formazione di un popolo soldato al servizio di un regime che però in vent’anni le ha perse tutte e quando le ha vinte lo ha fatto con la sete di sangue di generali come Rodolfo Graziani, il macellaio di Fezzan.

In altri casi, invece, il risultato del fact-checking di Filippi è sorprendente: per esempio l’incredibile incapacità burocratica, operativa e finanziaria per la ricostruzione delle zone terremotate tra Basilicata e Vulture dopo il sisma del 1930 (ricostruzione alla fine mai avvenuta) o come le leggi razziste approvate per le colonie del Corno d’Africa e della Libia (a proposito di responsabilità post-coloniali dei Paesi europei) che disponevano anche deportazioni di massa di berberi e arabi. “A rileggere queste disposizioni sorge il dubbio su chi, tra fascisti e nazisti, abbia copiato l’altro” scrive Filippi.

La memoria avvelenata di chi è scontento del presente
Lo smascheramento dei falsi – così tante volte ripetuti da diventare imponenti, come le valanghe che si autoalimentano – non è solo un’operazione che rimette in linea con la realtà delle cose, ma produce l’effetto di scoprirne di nuove, di inaspettate: una rigenerazione. “Mentre le fake news sul presente servono a indirizzare l’opinione del pubblico a cui sono rivolte – scrive lo storico Filippi – le false notizie sulla storia hanno lo scopo più profondo di rassicurare chi le accetta nei propri sentimenti, nelle proprie emozioni. Una balla sul passato è rassicurante, conferma sensazioni di cui altrimenti ci si vergognerebbe”. Di più: “Pensare a un ipotetico passato positivo lascia una speranza nell’animo di chi è scontento del proprio presente. In un momento di velocità e valori fluidi, avere un posto sicuro e tranquillo in cui rifugiarsi è rinfrancante, anche se questo posto è la memoria, anche se questa memoria è falsa”. 

Mussolini ha fatto cose buone diventa un modo per depurare la memoria avvelenata di un popolo che ha il male della mancata resa dei conti con la Storia, per giunta con quella fondativa della Repubblica, quel poco di religione civile che una parte d’Italia non cura né apprezza, qui compreso il ministro dell’Interno che confonde la nascita della democrazia con la riduzione a una partita tra destra e sinistra. Anzi, fu proprio De Felice, viene ricordato nel libro, a spiegare a destra e sinistra il motivo della sua ricerca sul fascismo, durata tutta la vita: “I fatti sono assai più eloquenti e persuasivi delle filippiche di certo antifascismo da comizio e di tante schematizzazioni che fanno acqua da tutte le parti”. Era il 1975 e sembra ieri.

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