La storia di "Internata numero 6", Maria Eisenstein, prigioniera in Abruzzo insieme ad altre 74 ebree e straniere (e quindi "nemiche della patria". Il suo romanzo, scritto con stile e talento, sul suo periodo di internamento, è rimasto a lungo sconosciuto. Fino alla riscoperta - dopo una ricerca di trent'anni - di un professore di Storia, Carlo Spartaco Capogreco. Che a ilfatto.it dice: "Perché quelle pagine sono finite nell'oblio? Perché vanno contro il mito del buon italiano"
E’ stata la Anna Frank italiana, eppure Maria Eisenstein e il suo romanzo L’internata numero 6, scritto durante i cinque mesi di prigionia in un campo fascista in Abruzzo e pubblicato nel 1944, restano ancora sconosciuti, a 74 anni dalla liberazione. Il motivo, oggi come allora, è lo stesso. “Questo libro va contro il mito del buon italiano”, suggerisce a ilfattoquotidiano.it Carlo Spartaco Capogreco, professore di Storia contemporanea all’università della Calabria. A lui, da trent’anni sulle tracce di Maria, che chiama affettuosamente “l’internata”, si deve la riscoperta del suo volume, di cui ha firmato la prefazione nell’ultima edizione, per i tipi di Mimesis, nel 2015. Una storia rilanciata nell’ultimo numero del Giornale di Storia, rivista online che nell’ultimo numero monografico (scaricabile gratis) dedica un approfondimento alle leggi razziste nell’Italia fascista con novità e fonti inedite.
Un taccuino per sopravvivere all’internamento
Quattro bagni, di cui tre rotti, caratterizzano l’edificio preso in affitto dal regime per internarvi, in attesa di un’eventuale deportazione, 75 donne ebree o straniere, dunque “nemiche della patria”. Maria appunta sul taccuino tutto quello che sente e che vede. Con spirito arguto e schietto, descrive in prosa asciutta e ironica le invidie, i sospetti e le angosce delle prigioniere e tratteggia lo squallore dei loro carcerieri, ordinari nella loro meschinità. Fa quasi sorridere per esempio la descrizione del commissario Pistone, sessantottenne spinto da una “passione senile per la trentenne Natascia”, “pietoso”, “falso”, “vanitoso e triviale”. A dargli man forte nel campo è una donna, la direttrice Marfisi, una casalinga abruzzese scrupolosa nell’applicare i dettami del Fascio (esemplare il rimprovero a una prigioniera che ha appena tentato il suicidio: “Il ministero non lo permette!”) tanto quanto nel rubare, in modo sistematico e sfacciato, cibo e soldi alle internate.
Le giornate si nutrono di vuoto e angoscia. “Tutto stagna in una patologica attesa della fine”, scrive Eisenstein, numero di matricola 6, come legge lei stessa sopra la sua branda ogni sera, quando, nel buio, smette di essere un numero e torna ad essere Maria, e allora la assale “il coraggio d’aver paura”. Non il coraggio di reagire: è capace solo di “sterili conati di ribellione”. E quando il fidanzato la abbandona al suo destino, la sua forza crolla. “E ancora avrei potuto resistere all’abbandono della donna, non a quello dell’essere umano, della numero 6”. Per sopravvivere al Campo, serve un appiglio. “Per essere corazzate ci vuole una grande fede in qualcosa o in qualcuno (…). Nel campo (…) questa fede muore”.
Cattiveria e indifferenza: Villa Sorge è la quintessenza dell’Italietta fascista
Fuori dalla Villa, la società civile è complice. Durante le uscite, centellinate e controllate, in paese le donne si imbattono nell’indifferenza degli abitanti, o, peggio, nella loro cattiveria, quasi in una Dogville ante litteram, il film di Lars Von Trier in cui Nicole Kidman è una latitante vessata e ricattata dai paesani che le danno riparo. “A voi che siete nemiche della patria non dovrei vendere niente – dice loro una contadina – Dovreste morire tutte di fame. Ma, se vi vendo qualcosa, magari a più degli altri. Questo mi mette a posto la coscienza”. L’unico momento di evasione, Maria lo trova grazie alla febbre, quando tocca i 41 gradi e la culla nei suoi vaneggiamenti. “Sprofondo nel buio del delirio: delizioso”.
Non c’è il filo spinato e neppure l’orrore, a Villa Sorge. Tutto è blando e piccolo, meschino e squallido: Villa Sorge è la quintessenza dell’Italietta fascista. La cattiveria degli aguzzini, più che odio, le suscita pietà. “Qui è messo a nudo il fondo umano, qualche volta ripugnante, spesso commovente”. Come la visione di Liselotte, un’internata sensuale che, in mancanza di uomini, sfoga il suo bisogno con il cibo. “Non i pianti, le invocazioni, né gli attacchi di isterismo e nemmeno le tranquille disperazioni di talune, possono rendermi palese tutta la stupida crudeltà del nostro internamento: lo fa invece la vista di questo donnone di 32 anni, distesa sulla branda, col vestito che le è scoppiato sui fianchi e sul petto, gli occhi semichiusi, le gengive impegnate in un ritmico movimento di masticazione: tutto il suo essere che vive per una caramella”.
Sulle tracce di Maria, la Anna Frank italiana
A differenza di Anna Frank, però, Maria Moldauer non muore nella Shoah. Si salva, fugge, con quello che nel frattempo è diventato suo marito: Samuel Eisenstein, di cui terrà il nome. Lei andrà negli Stati Uniti con quello che resta della sua famiglia scampata all’Olocausto. Lui la raggiungerà più tardi, i due si lasceranno poco dopo. Senza figli in comune, si perderanno di vista. Non si sa quasi niente della vita di Maria Eisenstein in America. “Una cosa è certa, non ha più scritto. E’ strano: aveva il talento, la stoffa. Ma la vita crea gli eroi, crea i momenti, crea i bisogni della scrittura”, riflette Capogreco.
E quando, all’inizio degli anni Novanta, il professore si metterà sulle tracce di Maria, incontrerà Samuel. Insieme la cercheranno, a colpi di lettere e telefonate, per scoprire solo dopo la riedizione in Italia de L’Internata numero 6, nel 1994, che Maria se ne era andata da tre mesi, senza sapere che il suo unico libro, pubblicato cinquant’anni prima, era tornato alla luce dall’altra parte dell’Atlantico. “I libri sono un’arma formidabile: lei è morta ma al tempo stesso è resuscitata, nel ’94, perché nel ’94 è uscito il suo libro: nessuno la conosceva. Dopo di allora si è parlato per la prima volta del campo di Lanciano. Ma L’internata numero 6 non si è mai presentato a Lanciano, interessante come termometro” sostiene lo studioso, che è autore anche de I campi del Duce (Einaudi). “Il suo libro è finito nell’oblio come ci sono finiti i campi stessi (qui il focus del Giornale di Storia). E’ tutto un oblio il Dopoguerra italiano, non c’è da meravigliarsi se c’è un rigurgito fascista. Serve la memoria, ma se non si fa la storia, quale memoria ci sarà?”.