Il segretario dell'organizzazione, Angel Gurria: "C'è una preoccupazione molto reale di una riduzione della classe media a causa dall’emergere di lavori di bassa qualità e sempre più precari"
“La quota di lavoratori sotto occupati in Italia è più che raddoppiata dal 2006, ed è ora la più alta tra i paesi Ocse”. Lo sostiene l’Ocse nel rapporto sull’occupazione diffuso giovedì 25 aprile. La quota di lavoro temporaneo, rileva l’Organizzazione parigina, “è superiore alla media Ocse ed è cresciuta notevolmente nell’ultimo decennio”. I contratti a tempo determinato si collocano al 15,4% del lavoro dipendente contro una media nell’area Ocse dell’11,2%; quelli a tempo parziale breve (1-19 ore settimanali) al 15,2% del lavoro dipendente contro una media al 15,9 per cento.
Le regole e istituzioni del mercato del lavoro svolgono un ruolo importante nel proteggere i lavoratori, ma molti di coloro che hanno contratti atipici (non a tempo indeterminato), spiega l’Ocse, ”spesso hanno protezioni solo parziali. Le tutele dei lavoratori atipici possono essere rafforzate estendendo alcuni diritti anche a chi sta nella zona grigia tra lavoro autonomo e lavoro dipendente, compresi molti lavoratori delle piattaforme digitali“. L’Italia, sottolinea l’organizzazione, “ha ampliato significativamente gli strumenti di sostegno al reddito per le persone a rischio povertà nel 2018 e nel 2019. Nel 2015, ha anche introdotto una serie di modifiche al sistema degli ammortizzatori sociali volte ad ampliare la platea dei beneficiari. Tuttavia, assicurare adeguati strumenti di protezione per i lavoratori autonomi rimane una sfida aperta”.
Non solo. Secondo l’Organizzazione parigina “il sistema italiano di servizi pubblici per l’impiego manca di personale qualificato, di strumenti informatici e di risorse adeguate e, per queste ragioni, la qualità dei servizi è bassa e varia notevolmente attraverso il Paese. Oltre ad ulteriori risorse, occorre migliorare il coordinamento tra le autorità centrali e quelle regionali responsabili nell’implementazione delle politiche attive, anche attraverso linee guida comuni per un miglioramento dei servizi per l’impiego”.
In ogni caso “il sistema italiano di formazione permanente non è attrezzato per le sfide future. Solo il 20,1% degli adulti in Italia ha partecipato a programmi di formazione professionale nell’anno precedente la rilevazione”, si legge ancora nel rapporto secondo il quale solo il 60% delle imprese con almeno 10 dipendenti offre formazione continua ai propri dipendenti, contro una media europea Ocse del 75,2 per cento. Inoltre, sottolinea l’Ocse, “c’è un grande divario (circa 38 punti percentuali) nell’accesso alla formazione professionale tra lavoratori ad alta e bassa qualifica, appena al di sotto della media Ocse (39,3 punti percentuali)”.
La contrattazione collettiva potrebbe integrare le politiche pubbliche nel campo della formazione: nel 2016, ad esempio i sindacati del settore metalmeccanico in Italia hanno negoziato aumenti salariali inferiori alle attese in cambio di formazione per tutti i lavoratori, indipendentemente dall’azienda per cui lavorano. Tuttavia, l’attuazione di questa parte dell’accordo rimane ancora limitata per difficoltà pratiche di implementazione.
Per fortuna “è improbabile un forte calo dell’occupazione complessiva nonostante una preoccupazione diffusa che i cambiamenti tecnologici e la globalizzazione possano distruggere molti posti di lavoro”. Alcuni posti di lavoro “potrebbero scomparire nei prossimi 15-20 anni, il 14% infatti, è ad alto rischio di automazione in media tra i Paesi Ocse mentre un altro 32% cambierà radicalmente“, sottolinea l’organizzazione internazionale e quindi “nuovi lavori saranno creati”. Inoltre, “sino ad ora l’occupazione complessiva è aumentata”.
Tuttavia, “la transizione non sarà facile”. Infatti, rileva l’Ocse, “ci sono preoccupazioni sulla qualità di alcuni dei nuovi posti di lavoro che sono creati e, senza un’azione immediata, le disparità del mercato del lavoro potrebbero aumentare, dato che alcuni lavoratori affrontano rischi maggiori di altri”. Molte persone, rileva il segretario generale dell’Ocse, Angel Gurria, nell’introduzione al rapporto, “sono state lasciate indietro dalla globalizzazione ed esiste un divario digitale che crea disuguaglianza per età, genere e ceto socioeconomico”. Non tutti, infatti, “sono stati in grado di beneficiare dei migliori posti di lavoro che sono stati creati e molti sono bloccati dal lavoro precario con una retribuzione bassa e un accesso limitato o nullo alla protezione sociale”. Ma non solo. “C’è una preoccupazione molto reale di una riduzione della classe media a causa dall’emergere di lavori di bassa qualità e sempre più precari”. In questo “contesto difficile”, sottolinea ancora Gurria, “è fondamentale concentrare l’attenzione nei confronti delle persone e del loro benessere”: “il trend e la velocità dei cambiamenti, soprattutto considerato la sfida legato al digital, richiedono una politica rapida e decisa. Un’azione ispirata ad un nuovo tipo di crescita, più inclusiva e più sostenibile”.
Infine, “il reddito di cittadinanza introdotto di recente rappresenta un trasferimento di risorse importante verso le persone in condizioni di povertà. Tuttavia, il livello attuale del sussidio è elevato rispetto ai redditi mediani italiani e relativamente a strumenti simili negli altri paesi Ocse”. Secondo l’organizzazione di Parigi, “la sua messa in opera dovrà essere monitorata attentamente per assicurare che i beneficiari siano accompagnati verso adeguate opportunità di lavoro”.