Foad Aodi, presidente di Amsi, l’Associazione dei medici di origine straniera in Italia, e consigliere dell’Ordine dei medici di Roma: "In altri Paesi stipendi più alti. Incremento anche degli italiani che chiedono informazioni sull'estero". Dietro le difficoltà a restare anche i tempi per il riconoscimento dei titoli e le difficoltà con la cittadinanza che li confina nelle strutture private. "Ammettere chi ha esercitato la professione qui per 5 anni"
Non sono solo i medici italiani a fare le valigie quando le condizioni di lavoro nei nostri ospedali diventano insostenibili. Anche gli stranieri, arrivati negli anni scorsi con tanti sogni in testa, oggi partono per altri lidi. “Sono aumentati del 25% quelli che si sono rivolti al nostro sportello intenzionati a tornare a casa”, spiega Foad Aodi, presidente di Amsi, l’Associazione dei medici di origine straniera in Italia, e consigliere dell’Ordine dei medici di Roma. E sono in crescita del 35 per cento i medici italiani che “ci hanno chiesto informazioni per esercitare in un Paese diverso dall’Italia, che offre stipendi più alti, soprattutto in area chirurgica perché qui si fa poca pratica”.
L’impossibilità di partecipare ai concorsi per chi proviene da uno Stato non appartenente all’Unione europea è l’ostacolo più preoccupante. I medici stranieri che risiedono in Italia da meno di dieci anni, non avendo diritto alla cittadinanza, vengono automaticamente esclusi. Per non parlare dei tempi biblici per il riconoscimento dei titoli: “Un anno e mezzo fino a due per gli extra Ue”, dice Aodi.
Il risultato è che dei 19mila camici bianchi stranieri presenti oggi sul territorio italiano, il 65 per cento è ancora senza cittadinanza ed è costretto a prestare servizio nelle strutture private. “Dove sono pagati poco e in ritardo – denuncia il presidente Amsi – Le condizioni di lavoro in Italia sono tra le più difficili in Europa. Basti pensare che in Arabia Saudita e in tutti i Paesi del Golfo arrivano a guadagnare 14mila euro al mese e basta un mese per sbrigare le pratiche burocratiche”.
Una volta arrivavano in Italia soprattutto dal Medio Oriente (Libano, Siria, Israele, Giordania, Palestina) e dall’Africa (Congo, Camerun e Nigeria) per studiare medicina nelle nostre università. E quasi la metà, terminati gli studi, è rimasta da noi. Dopo la caduta del muro di Berlino, invece, i medici emigravano già con una laurea in mano e una specializzazione in particolare dai Paesi dell’Est (Polonia, Ucraina, Russia), dall’Albania e dal Nord Africa (Egitto e Tunisia). Negli ultimi cinque anni è in corso una nuova fase migratoria: di fronte a un calo degli studenti stranieri e dei laureati dall’Est, è in crescita l’arrivo di professionisti siriani e di quelli che hanno fatto la Primavera araba.
Un esercito di dottori preziosi ma sprecati, si diceva. Da qui la proposta dell’associazione di “ammettere ai concorsi chi, anche senza cittadinanza, ha esercitato la professione per almeno cinque anni nelle strutture italiane, con l’impegno poi di mettersi in regola”. Il messaggio del presidente Aodi è lapidario: “Non è giusto prima accogliere questi medici e poi cacciarli quando devono fare una selezione pubblica. Non siamo usa e getta, ecco”.