Era il 1989, l’anno della caduta del muro di Berlino e l’Italia della prima Repubblica, impermeabile all’allarme sulla questione morale di Enrico Berlinguer, doveva ancora conoscere i giorni ingloriosi di Tangentopoli e le speranze di rinnovamento tradite dopo Mani Pulite, quando Paolo Borsellino osò dire che “la politica dovrebbe fare pulizia di coloro che sono raggiunti da fatti inquietanti, anche se non sono reati“. Il riferimento diretto era a situazioni di “contiguità”, e cioè di vicinanza o di comunanza di interessi, tra esponenti politici e associazioni mafiose in cui non era ravvisabile il reato di associazione mafiosa.
Ora il sottosegretario alle Infrastrutture Armando Siri, responsabile economico per la Lega che ha già patteggiato una condanna per bancarotta fraudolenta, è indagato dalla procura di Roma per corruzione nell’ambito di un’inchiesta della Dia di Palermo, con l’accusa di aver scambiato favori e denaro per agevolare l’imprenditore dell’eolico Vito Nicastri, agli arresti domiciliari per aver favorito e coperto, secondo gli investigatori, la latitanza di un boss di primissimo piano come Matteo Messina Denaro. Inoltre da resoconti investigativi della Dia emerge la rete di rapporti intercorsi tra il sottosegretario della Lega e l’amico Paolo Arata – già deputato di Fi nel 96 e attualmente socio occulto di quel Vito Nicastri per il quale la procura di Palermo ha chiesto in queste ore la condanna a 12 anni per concorso in associazione mafiosa e intestazione fittizia di beni.
E stando alle indagini, uno degli obiettivi strategici della coppia Arata-Siri era quello di “fregare i 5 Stelle”, che in Sicilia facevano resistenza contro il business del biometano: interesse comune dei soci Arata-Nicastri, che a Roma doveva essere curato e perorato da Armando Siri all’interno dell’esecutivo in cui venne collocato anche grazie ai contatti americani degli Arata padre e figlio. Non all’Economia, come avrebbe preferito, ma alle Infrastrutture. Ad abundantiam come spin doctor della Lega e “curatore” delle relazioni americane, approda contestualmente in quella che fu “Roma ladrona” anche Arata junior, assunto a Palazzo Chigi dal plenipotenziario Giancarlo Giorgetti.
Il quadro di “fatti inquietanti” in cui i magistrati inquirenti ravvisano un reato pesante come la corruzione in un’inchiesta per mafia a carico di un rappresentante di governo sembra oltremodo completo. A questo vanno aggiunti come corollari un plateale conflitto di interessi rappresentato da Paolo Arata, possessore palese di varie società in ambito energetico e incaricato da Matteo Salvini di scrivere il programma della Lega sull’energia, oltre che una perfetta continuità con la vecchia politica siciliana più chiacchierata e opaca, a cui il professore Arata è particolarmente legato.
Matteo Salvini non vuole nemmeno sentir parlare di allontanare Siri dalla compagine di governo: invita a sciacquarsi la bocca chi accosta il nome della Lega a indagini sulla mafia, si aggrappa alla presunzione di innocenza fino alla sentenza definitiva, nega qualsiasi richiesta di passo indietro per Siri da parte di Giuseppe Conte e auspica la celerità della magistratura secondo copione bipartisan e consolidato.
Il M5S è consapevole – credo, e mi auguro compattamente – che tenere il punto sulle dimissioni di Siri sia una strada obbligata che non consente deviazioni o scorciatoie: sia per la rete complessiva di legami, frequentazioni, attività lobbistiche a favore di soggetti quantomeno poco raccomandabili, sia per il suo curriculum “accidentato”, al di là delle conferme processuali comunque in tempi non brevi. Luigi Di Maio ha ribadito che non ci saranno passi indietro sulla legalità, che se si parla di un’inchiesta dove “ci sono di mezzo dei mafiosi” chi è coinvolto “deve lasciare”, che “il garantismo non deve essere confuso con il paraculismo”.
Naturalmente, se persegue coerentemente questa linea, il M5S sarà ulteriormente isolato, osteggiato, avversato dal suo partner di governo in quello che la vulgata mediatica continua a definire il “gioco delle parti” dei populisti, avvinghiati nel torbido abbraccio del potere. Sarà più che mai il bersaglio privilegiato del “nuovo” Pd di Nicola Zingaretti, che con quello “vecchio” di Matteo Renzi condivide l’allergia per il presunto giustizialismo grillino e al di là della propaganda anti-Lega ha come prevalente obiettivo politico la disgregazione del M5S.
Poi, a proseguire in questo ultimo tratto di campagna elettorale a ridosso del voto europeo sul fronte dell’irrisione, della delegittimazione e dell’attacco gratuito a prescindere nei confronti di un M5S in difficoltà reali e/o artificiali, ci penserà più che mai “l’informazione”. Basta estendere e implementare “il metodo Raggi” che già tanti buoni frutti ha prodotto, come ha dimostrato L’Espresso con “lo scoop” della telefonata dello scandalo, con “le pressioni” del sindaco sul presidente Ama per modificare un bilancio non approvabile in quanto non veritiero. Per Salvini è stata la manna dal cielo per controbilanciare la rogna Siri, con la compiacenza di tutto il sistema mediatico che ha equiparato i “due casi” tout court.
Ma non bastava, perché anche l’occhio vuole la sua parte: così quello che fu illo tempore un settimanale in cui trovavi le inchieste scomode che gli altri non facevano spara in copertina un primissimo piano dark di Virginia Raggi deturpata, anzi “mascariata”, in senso letterale “tinta con il carbone”. Non è difficile “dipingere una maschera a proprio piacere su colui o coloro che si vogliono diffamare” con il carbone o con le parole, ma a lungo andare gli effetti potrebbero non essere quelli sperati.