di Riccardo Cristiano*
Quello del 21 aprile, quest’anno, è stato il giorno di Pasqua per tutti i cristiani che seguono il calendario gregoriano, anche nello Sri Lanka ovviamente. Ma, dal 2009, cioè esattamente da dieci anni, il 21 aprile in quel martoriato Paese è anche il giorno in cui si ricorda la più sanguinosa strage di Tigri (e forse di civili) tamil – l’etnia di religione indù le cui Tigri per anni hanno combattuto per separarsi, con il Nord dell’isola, dalla maggioranza cingalese, di religione buddhista. Quel massacro non ha visto alcuna conseguenza: il 21 aprile rimane un fatto né accertato né punito, uno dei tanti. Le Tigri avevano certamente conquistato il loro “posto d’onore” nella storia del terrorismo internazionale, inventando la figura dell’attentatore suicida con cintura esplosiva. Ma dietro la loro lotta armata c’era anche una causa antica che va ricordata.
I tamil originano in India e molti di loro furono trasferiti forzatamente nell’isola del tè dai britannici, per avere manodopera a basso costo proprio nelle piantagioni. C’è anche questo da tenere presente per capire perché lo Sri Lanka – che si incammina verso pessime elezioni, con un presidente che ha tentato di dimissionare governo e parlamento per essere poi ricondotto sui suoi passi dalla Consulta – è arrivato all’indipendenza nel 1972 e ha incontrato la guerra civile nell’83. Dal 2009, quando le armi tacquero, la via della riconciliazione non è stata davvero tentata e in questo senso la ferocia contro le Chiese cristiane sembra indicare il dato più attuale e rilevante: i cristiani sono sia tamil sia cingalesi, piccola minoranza che però ha in sé la forza per dire che si può vivere insieme; che lo Stato, oggi ritenuto da diversi analisti prossimo al fallimento, può vivere se ogni comunità respingesse le frange estremiste, irredentiste, separazioniste, integraliste.
I cristiani lo dimostrano con il loro essere non “propaggine” dell’Occidente, come hanno inteso dire i terroristi con gli attentati contro i loro luoghi di culto come contro alberghi per occidentali. Non sono quinte colonne degli altri, ma cingalesi e tamil, come gli altri, forse un po’ più degli altri: perché quando emigrano sono discriminati, la loro fede sparisce, non viene ricordata, ma quando restano in patria sanno dire che lo Stato dei tamil e dei cingalesi è possibile. Lo possono dire loro, che sono presenti tra gli uni e gli altri.
Prima di recarsi in visita nello Sri Lanka nel 2015, incontrandone i vescovi, papa Bergoglio aveva sottolineato proprio questo aspetto: “Mentre il Paese cerca di riunirsi e guarire, la Chiesa si trova in una posizione unica per offrire un’immagine vivente di unità nella fede, poiché ha la benedizione di poter contare tra le sue file sia cingalesi sia tamil”. Il direttore di Civiltà Cattolica Antonio Spadaro ha ricordato che già allora il papa “aveva messo in guardia i vescovi da un senso di unità che nasce non dal dialogo, ma da un falso senso di unità nazionale basata su una singola identità religiosa”. Ripensare alla storia e alle discriminazioni di Ceylon-Sri Lanka aiuta a capire la centralità di questa osservazione. E’ interessante notare che proprio padre Spadaro ha osservato che l’appello alla riconciliazione tra le religioni assunse nei toni di Bergoglio “una portata civile: i seguaci delle varie tradizioni religiose hanno un ruolo essenziale da giocare nel delicato processo di riconciliazione e di ricostruzione del Paese.” Così Bergoglio indicava l’unica strada possibile: riconciliazione vuol dire ricostruire e riconoscere le verità storiche, per liberarsi e non rimanere schiavi dei torti.
Come non domandarsi ora che tragedia globale sia quella dello Sri Lanka e che ricadute possa avere, visto che lì coesistono grandi tradizioni quali buddismo, induismo, islam e cristianesimo. Una violenta esplosione di estremismo tra la maggioranza buddhista negli anni recenti, rivolto soprattutto contro i musulmani come accaduto nel Myanmar, ha aperto le porte al nuovo estremismo islamista. Frange, certamente, ma questi giorni dicono quanto possano fare questi “pochi”.
Per questo non fu retorica un passaggio molto citato dei discorsi del papa durante quel viaggio: “Per il bene della pace, non si deve permettere che le credenze religiose vengano abusate per la causa della violenza o della guerra. Dobbiamo essere chiari e non equivoci nell’invitare le nostre comunità a vivere pienamente i precetti di pace e di convivenza presenti in ciascuna religione e denunciare gli atti di violenza quando vengono commessi”. Poco prima il leader islamico aveva pronunciato parole veementi contro la strumentalizzazione fanatica e assassina della religione.
Questa violenza che sembra unire è l’altra faccia di ciò che il papa testimoniò di aver visto nel santuario di Madhu: “C’erano buddisti, islamici, induisti, e tutti vanno lì a pregare; vanno e dicono che ricevono grazie! C’è nel popolo – e il popolo mai sbaglia -, c’è lì il senso del popolo, c’è qualcosa che li unisce”. Questa unità di popolo è stata minata dalle élite fanatiche, che vanno smascherate da ciascuno nel proprio campo, prima che in quello altrui. In questo senso l’immediata condanna da parte dell’imam dell’Università islamica di al-Azhar è uno sviluppo positivo, auspicabilmente solo il primo.
*Vaticanista di Reset